Mos maiorum letteralmente significa “costume degli antichi”: si trattava dell’insieme di norme, di origine consuetudinaria, che venivano osservate generalmente dal popolo in virtù della loro derivazione da antiche tradizioni. Il mos maiorum era considerato un patrimonio di valori che permetteva la sopravvivenza della famiglia, del sistema delle gentes e del complesso delle istituzioni della Repubblica. Tale complesso di valori e di comportamenti si trovò a dover fare i conti con una realtà storica in evoluzione e andò inevitabilmente in crisi, ma si trattò di un processo di lungo periodo, che accompagnò tutta la storia della Repubblica romana e oltre.

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I precetti di Catone. Catone fu uno strenuo difensore delle tradizioni dei padri e dell’austerità arcaica contro l’inarrestabile avanzata della cultura proveniente dall’estero, in particolare dalla Grecia: essa infatti portava con sé, secondo i conservatori come Catone, il vizio e la corruzione degli usi, semplici ma virtuosi, su cui la Roma agricola delle origini si era fondata.

«[Il piccolo proprietario patrizio] faccia vendite all’asta: venda l’olio, se ha un prezzo; venda il vino, il frumento che sia di più; venda i buoi invecchiati, gli armenti e le pecore in cattivo stato, la lana, le pelli, il carro vecchio, i ferri vecchi, il servo vecchio, il servo che si ammala spesso, e se qualche altra cosa gli sia di più, la venda. […] Sii buono con i vicini: non permettere ai tuoi schiavi di comportarsi male con loro. […] Questi saranno i doveri del pater familias: sia di retti principi; sia osservante delle festività; tenga la mano lontana dalle proprietà altrui, curi con diligenza la propria; impedisca liti fra gli schiavi: se qualcuno avrà commesso una mancanza, lo punisca secondo la gravità della colpa, ma con indulgenza. […] Non sia fatto male agli schiavi, non soffrano il freddo, non soffrano la fame; li tenga sempre impegnati in qualcosa di buono: più facilmente così potrai tenerli lontani dalle cose altrui e dalle azioni cattive.» [Marco Porcio Catone, De Agricoltura]

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La definizione del diritto romano nelle XII Tavole. Il mos maiorum costituiva l’elemento fondamentale del sistema giuridico romano arcaico, ma era un sistema di consuetudini non formalizzate. Quando invece si rese necessario regolare per iscritto i rapporti nella vita pubblica e privata dei cittadini, e fissare delle sanzioni per chi non rispettava tali rapporti, furono emanate le cosiddette XII Tavole, le dodici piastre di bronzo incisi da una commissione di dieci membri, sul modello delle leggi greche. Esse vennero esposte nel foro, in modo che tutti potessero conoscerle e consultarle. Da qui partiva l’educazione dei figli da parte del pater familias, finalizzata a creare dei buoni cittadini.

I. Se uno è chiamato in giudizio ci vada. Se non ci va, colui che lo chiama in giudizio prenda due testimoni e poi ve lo conduca per forza. Se il convenuto è impedito da un male o dalla vecchiaia, colui che lo chiama gli dia un giumento. Se ambo i contendenti sono presenti, il tramonto sarà il limite ultimo del processo.

II. Colui al quale sia mancato il testimonio, vada girando davanti alla sua casa chiamandolo ad alta voce per tre giorni di mercato.

III. Per un debito del quale è stata fatta confessione e per il quale il giudizio è pronunciato, vi saranno 30 giorni di tempo fissati dalla legge per saldare il debito. Passati i 30 giorni, il creditore arresti il debitore e lo conduca in giudizio. Se il debitore non paga e nessuno in giudizio si fa garante per lui, il creditore lo conduca con sé e lo leghi con corregge o con catene. […] [Dopo un certo limite massimo di tempo] venga fatto a pezzi, oppure mandato al di là del Tevere, in paese straniero, per essere venduto.

IV. Sia subito ucciso un fanciullo di grave deformità. Se il padre ha venduto per tre volte il figlio, questi è libero dalla patria potestà.

V. Sia giusto che un padre lasci i suoi beni e i suoi schiavi a chi vuole. Se uno muore senza testamento, e non si fa avanti il suo erede, il più prossimo congiunto in linea paterna abbia tutta quanta l’eredità. Se neppure il congiunto, abbiano l’eredità quelli della sua gens. La presente legge interdice al matto l’amministrazione dei propri beni e prescrive che sia posto sotto la cura dei congiunti o dei membri della sua gens.

VI. Quando uno farà un impegno o concluderà una vendita, questi atti abbiano la loro efficacia se siano stati espressi con forme solenni. […]

VII. La larghezza delle vie sia di otto piedi, se la via è diritta. Si mettano in ordine le strade. […]

VIII. Se qualcuno pubblica un libello che diffama o reca vergogna ad alcuno, sia condannato alla pena capitale. Se uno rompe a un altro un arto e non viene con lui ad un accordo, abbia la pena del taglione. Se uno fa ingiuria ad un altro, la multa è di 25 assi. Chi, di notte, di nascosto, pascola o taglia le biade nel campo altrui, se è maggiorenne commette un delitto capitale: venga appiccato e poi sacrificato a Cerere. Se è minorenne deve essere bastonato e paghi il doppio del danno prodotto. Non si presti denaro con un interesse maggiore dell’8%. Chi avrà dato falsa testimonianza sia gettato dalla rupe Tarpea.

IX. Sia punito con la morte chi ha istigato un nemico contro la patria o ha consegnato un cittadino al nemico. È vietato che si uccida qualunque uomo che non sia stato condannato.

X. Non si seppellisca né si bruci nessun morto nella città. È proibito l’oro nelle sepolture. Colui i cui denti sono legati con oro, potrà essere seppellito o bruciato con l’oro.

XI. Non vi saranno matrimoni fra patrizi e plebei.

XII. Se uno schiavo commette un furto o arreca qualche danno, sarà ceduto in compenso dei danni.

La perpetuazione del mos maiorum attraverso l’educazione. Grande importanza viene dato all’esempio dei più anziani, come strumento privilegiato di apprendimento del mos maiorum da parte dei giovani Romani.

«Fin dall’antichità vigeva la norma che noi imparassimo dai più anziani, non solo con le orecchie ma anche con gli occhi, le modalità che poi avremmo dovuto mettere noi in opera e che successivamente, come attraverso ad una sorta di staffetta, avremmo dovuto affidare ai più giovani. In ossequio a questo principio, i giovinetti venivano subito formati alla disciplina militare, affinché si abituassero a comandare ubbidendo ed a fare i condottieri vivendo da gregari; […] quelli che si disponevano alla carriera politica si collocavano alla porta della curia ed erano osservatori delle pubbliche deliberazioni prima di diventarne partecipi. […] Quali fossero le prerogative di chi poneva un argomento all’ordine del giorno, quali i diritti di chi enunciava il proprio parere, quali i poteri dei magistrati, quali la libertà degli altri, quando bisognasse cedere e quando resistere, quali fossero i momenti di stare in silenzio, quale la misura dei propri interventi, quale il metodo per dissociare dei pareri che peccavano d’incoerenza, quale la tecnica da seguire per aggiungere qualche precisazione a una mozione antecedente, insomma tutta la prassi senatoria veniva insegnata mediante l’esempio, che costituisce la maniera più sicura per trasmettere delle norme» [Plinio il Giovane]

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L’immagine della famiglia patriarcale e il ruolo della donna. L’ideologia della familia, comprendente il pater, i figli, i clientes e dedita al culto degli antenati fondatori, era tenuta viva a Roma anche tramite un’iconografia ben precisa. Il costume degli antichi prevedeva un ben preciso modello ideale anche per la donna: quello di moglie e madre devota. Per approfondimenti rinviamo ai seguenti articoli: La morte, i riti funebri e l’aldilà nel mondo romano, Il vino, la lana, il silenzio. / Essere donna nella Roma arcaica..

L’educazione dei fanciulli a Roma e in Grecia. Il seguente documento – dello studioso Domenico Augenti – illustra di come il mos maiorum fosse trasmesso ai fanciulli in primo luogo all’interno della famiglia; il modello educativo romano viene anche messo a confronto con quello greco.

«Quando gli tolgono le lunghe bende, che nei primi mesi di vita fasciano strettamente tutto il corpo dell’infans, (etimologicamente “non parlante”) lasciando fuori solo la testa ed a volte i piedi, al fanciullo si fa indossare sulla tunica la toga praetexta, un taglio ovale di lana bianca, con bande di porpora, ad indicare il rispetto dovuto alla persona che la indossa. A Roma questo trattamento è riservato solo a fanciulli, magistrati e pontefici, che vengono così avvolti in un cerchio rosso, colore il cui magico potere protettivo viene fatto risalire ad arcaici influssi etruschi.

Dagli otto ai sedici anni il fanciullo, secondo Varrone, è un puer (termine di antica radice indo-europea che designa il cucciolo, maschio o femmina, dell’uomo e dell’animale). Dal II secolo a.C. per le femmine si comincia ad usare il termine puera ed il suo diminutivo puella.

Nonostante la severità con cui i Romani, a differenza dei Greci, educano i loro figli ad entrare nel mondo degli adulti, ci sono testimonianze di giochi e passatempi dei fanciulli. Molti giochi sono importati da nutrici e pedagoghi di provenienza greca. Come in ogni tempo, il fanciullo che gioca tende ad imitare gli adulti. Si va alla guerra salendo a cavallo di una canna, si viaggia su carrozzini trainati da capre o altri animali domestici. Le bambine attendono alla cura di figlie-bambole. Si fanno giochi di abilità con le noci e giochi di azzardo come testa e croce, morra, dadi, di regola vietati ai grandi, ai quali sono consentiti soltanto di dicembre durante le trasgressive giornate festive dei Saturnali.

Il rapporto dei genitori con i fanciulli non è privo di manifestazioni d’affetto, anche se in epoca repubblicana queste sembrano più rare, perché si teme che vengano interpretate come segni di debolezza. In un passo di Plutarco si coglie una curiosa usanza del I secolo: la maggior parte delle persone, quando bacia teneramente i propri piccoli, ne prende le orecchie tra le mani e li invita a fare altrettanto, con scherzosa allusione al fatto che essi devono amare soprattutto chi fa loro del bene attraverso le orecchie.

I fanciulli ascoltano i genitori, il cui ammaestramento ha un solo obiettivo: evitare o alleviare loro le sofferenze della vita, educandoli al migliore adattamento all’ambiente fisico, economico e sociale, cui vanno incontro. Ma il fanciullo non è un uomo, né fisicamente, né moralmente. L’atmosfera di sacralità di cui lo si circonda non impedisce di ritenere la fanciullezza un periodo di debolezza intellettuale, definito infirmitas, che in campo giuridico si accompagna ovviamente all’assenza di capacità. e responsabilità.

Seneca ci informa sul diverso atteggiamento del padre e della madre verso i fanciulli: “Non vedi quanto diversamente i padri dimostrino il loro affetto dalle madri? Quelli comandano che i figli siano svegliati per dedicarsi in tempo agli studi. Feriatis quoque diebus, non patiuntur esse otiosos (anche nei giorni festivi non sopportano che se ne restino in ozio, e spremono loro sudore ed a volte lacrime). Le madri invece vorrebbero numquam contristari, numquam flere, numquam laborare, (che non fossero mai tristi, che non piangessero mai, che non faticassero mai)!

L’educazione dei romani non è quella che danno i Greci. La paideia greca tende al raggiungimento della perfetta armonia tra attività fisiche e mentali. Si vuole arrivare ad un insieme di bellezza, raffinatezza e cultura. L’educatio romana tende invece a sviluppare le attitudini morali, intellettuali e fisiche dei fanciulli, lasciando l’acquisizione di cultura ad una fase successiva alla formazione del carattere. Perciò le espressioni che si usano sono prima educare (guidare) e solo più tardi instituere o docere (insegnare). Lo scopo principale dell’educazione romana è di condurre i fanciulli ad essere moderati nella condotta, resistenti alla fatica fisica, rispettosi della religione e della legge.

Per i Greci poi l’intera formazione dei giovani spetta allo Stato; per i Romani invece la base educativa viene costruita all’interno della famiglia, su questa base andrà in seguito impostata la formazione e l’insegnamento esterno della scuola.

La diversa mentalità educativa greca e romana emerge nelle discipline della musica e dell’atletica. Il sapere suonare il flauto e la lira, il cantare, il danzare, il dipingere, attività definite “Belle Arti” nel programma educativo dell’aristocratico greco, così come la corsa, il salto, la lotta ed il lancio del disco, non entrano nel costume romano, che non incoraggia mai a dedicarsi a quanto non abbia uno scopo pratico immediato. L’equitazione è così preferita all’atletica. Quanto alla musica ed alla danza i Romani le giudicano addirittura discipline che possono influire negativamente sulla formazione del carattere. […] Comunque anche i testi classici usati nelle scuole di Grecia, soprattutto i poemi omerici, sono in grado di offrire al fanciullo una sintesi di tutte le virtù: dal valore guerriero, all’amore per la patria, alla religiosità e alla devozione filiale. In particolare l’Odissea ha un valore pedagogico notevole. In essa si vede premiata la tenacia, la saggezza, l’onestà, la fedeltà, l’amore familiare. Personaggi come Ulisse sono un modello di virtù. Nell’episodio in cui resiste alle lusinghe delle Sirene, questi rappresenta l’uomo che frena l’inclinazione al piacere. Ai Romani l’Odissea è più gradita dell’Iliade, che celebra la sconfitta dei Troiani, considerati con Enea i loro lontani progenitori.

Nei fanciulli è considerato essenziale il senso della misura o moderazione (modestia), il contegno (pudicitia), il rifiuto di ciò che è sconveniente (pudor) e soprattutto il sentimento di soggezione verso gli dei, i propri genitori e le persone anziane (pietas). Soprattutto la pietas è importante nella sfera pubblica perché implica sin dalla più tenera età il riconoscimento del principio gerarchico. Al fanciullo si vieta di fare il bagno caldo e mangiare sdraiato. I ragazzi, dice Varrone, devono anche dormire e mangiare poco, altrimenti si infiacchiscono e non crescono. Un padre di famiglia romano si tiene spesso il figlio accanto. Ci riferisce Aulo Gellio che il ragazzo romano nella sua toga bordata di rosso trotterella dietro al padre e lo accompagna dappertutto: al Foro, in processione al tempio, forse anche al Senato. Impara le cose guardando suo padre: come ci si comporta insieme agli altri, come si parla, come si offrono i sacrifici agli dei.

Nel mondo romano occorre proteggere il fanciullo dalla dilagante corruzione degli adulti, che si presenta in due modi: come seduzione, che minaccia ragazzi e ragazze sin dall’infanzia e come cattivo esempio di abitudine ai piaceri. I genitori sono tentati di mandare il fanciullo in campagna, lontano dalla perversione morale della città. Ma è già tempo che all’educazione si accompagni un’elementare istruzione. Occorre quanto meno che il ragazzino impari da un maestro a leggere, scrivere, fare di conto. Il fanciullo, sempre accompagnato, va alla scuola primaria. Le famiglie benestanti hanno pedagoghi in casa, dai quali presto i figli apprenderanno la lingua greca, gli altri mandano i fanciulli alla scuola pubblica.»

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By Antonio Palo

Laureato in 'Civiltà Antiche e Archeologia: Oriente e Occidente' e specializzato in 'Archeologie Classiche' presso l'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'. Fondatore e amministratore del sito 'Storia Romana e Bizantina'. Co-fondatore e presidente dell'Associazione di Produzione Cinematografica Indipendente 'ACT Production'. Fondatore e direttore artistico del Picentia Short Film Festival.

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