I primi due secoli dell’Impero, e in particolare l’età del principato adottivo, dall’ascesa al trono di Nerva (96 d.C.) alla morte di Marco Aurelio (180 d.C.), sono stati spesso definiti l’epoca d’oro della storia di Roma, se non addirittura il secolo più felice della storia. Le ragioni di questa definizione sono molteplici. In questi due secoli non ci furono, nel complesso, prolungate situazioni di guerra: l’Impero sembrava in grado di garantire la sicurezza dei suoi confini e persino di potersi ulteriormente espandere. Lo Stato era solido e florido; in ogni angolo dell’Impero nascevano nuove città e le vecchie (a cominciare da Roma stessa) si popolavano e arricchivano di templi, palazzi, anfiteatri, e strutture di servizio, come i monumentali mercati voluti da Traiano nel cuore stesso di Roma.
L’economia si presentava molto vivace e gli scambi altrettanto intensi. La situazione di relativa sicurezza nel Mediterraneo e all’interno dei confini facilitava i commerci e la navigazione. D’altra parte, i prodotti romani si diffondevano bel al di là dei confini politici dell’Impero: merci, manufatti e monete, di fabbricazione romana, giungevano ai quattro angoli del mondo, dalla Scandinavia ai mercati dell’estremo Oriente.
La forza dell’economia si coglie anche nella spiccata mobilità sociale che permetteva in epoca imperiale di poter aspirare ad una certa ricchezza. Poteva accadere – e di fatto accadeva – che uomini nati schiavi lasciassero in eredità patrimoni più vasti di quelli dei loro ex padroni. Un esempio di questo tipo, seppur letterario, è dato dal Satyricon, famoso romanzo di Petronio, scritto nel I secolo d.C.: Trimalchione, nato schiavo, ottiene la libertà a fa fortuna, fino a possedere talmente tante proprietà che egli stesso non riesce a ricordarne il numero, e può viaggiare (iperbolicamente) dall’Italia all’Africa senza mettere un piede fuori dalle sue terre. Oppure poteva accadere – e di fatto accadeva – che semplici soldati nati in provincia arrivassero a diventare imperatori: il nonno di Vespasiano, ad esempio, nato a Rieti (nell’entroterra laziale), era un semplice sottufficiale dell’esercito, il padre un esattore delle imposte; eppure i due figli divennero l’uno prefetto dell’urbe, la prestigiosa e ben remunerata carica introdotta da Augusto, l’altro addirittura imperatore. Nel giro di appena due generazioni, un’oscura famiglia di provincia era diventata la casata più importante del mondo romano.
Dal punto di vista intellettuale, le opere dei poeti e dei letterati latini si diffondevano ampiamente nell’Impero. Se non meraviglia la presenza di librerie nella città di Lione (Lugdunum), importante centro politico ed economico della Gallia, lungo il corso del Rodano, più sorprendente potrebbe apparire la presenza di libri romani a Vienne, città di gran lunga meno importante, qualche decina di chilometri più a sud: eppure il poeta latino Marziale, vissuto all’epoca di Domiziano (81-96 d.C.), gongola in una sua composizione alla notizia che i suoi epigrammi sono fra le letture preferite in quel piccolo centro. Lo stesso Marziale attesta in un altro componimento che le sue raccolte di poesie sono giunte fino al mercato britannico.
Dopo le biblioteche pubbliche aperte da Augusto a Roma, un’altra grande iniziativa del genere fu realizzata da Traiano: la biblioteca Ulpia resterà per secoli una delle istituzioni culturali più importanti di Roma, dove letterati e intellettuali trovavano un ambiente silenzioso e appartato, e soprattutto documenti d’archivio e rarità bibliografiche. Davanti all’edificio che la ospitava si ergeva la Colonna Traiana, nella quale, come ipotizzato, gli eventi sono narrati come se fossero rappresentati su un rotolo libraio adattato alla forma della colonna (i libri antichi non avevano infatti la forma di quelli moderni, ma erano scritti su una lunga striscia di papiro che veniva successivamente arrotolata intorno ad un bastoncino). Biblioteche minori erano associate alle residenze imperiali, ai templi o alle terme e sono attestate in molti centri dell’Impero.
Alla crescente omogeneità culturale si accompagnava la progressiva diffusione della cittadinanza romana. Anche in questo caso l’iniziatore del processo era stato Cesare, quando aveva concesso la cittadinanza agli abitanti della Gallia Cisalpina; ma la tendenza continuò senza interruzione per tutta l’epoca imperiale. L’acquisizione della cittadinanza non significava solo entrare in una condizione privilegiata dal punto di vista dei diritti e della posizione di fronte alla legge: per i membri delle classi agiate, rappresentava la concreta possibilità di accedere alle carriere pubbliche come ufficiali dell’esercito e della flotta, come funzionari della burocrazia imperiale, infine come magistrati e senatori. Da qualsiasi punto dell’Impero, almeno in linea di principio, era possibile fare il “grande salto” che portava a Roma, nel cuore stesso del potere.
Il punto culminante di questo processo fu raggiunto nel 212, quando l’imperatore Caracalla, figlio di Settimio Severo, estese la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero, con l’eccezione di alcune categorie minori e numericamente poco significative. Il provvedimento derivava forse da ragioni di semplificazione del prelievo fiscale più che da una effettiva volontà di parificare tutti i sudditi, ma è ugualmente significativo: per la prima volta nella storia nasceva un organismo imperiale in cui tutti, dall’imperatore all’ultimo dei contadini, erano accomunati dalla condivisione della medesima condizione giuridica. Davvero si poteva credere, come già si diceva all’epoca, che Roma avesse trasformato quello che prima era un mondo in una sola immensa città.
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