Immagine di copertina: acquedotto di Segovia, Spagna.
Una delle maggiori realizzazioni della civiltà romana fu l’efficientissimo sistema di distribuzione delle acque, attraverso una rete di acquedotti che non trovò paragoni nei secoli se non in epoca moderna.
Nei primi tempi di Roma l’acqua veniva attinta dal Tevere, da pozzi e cisterne, oltre che da numerose sorgenti, come la Foce delle Ninfe e la Fonte di Giuturna, che si trovavano vicine alla città. Con l’aumento della popolazione durante l’età repubblicana, il rifornimento di acqua potabile dovette essere incrementato trasportando acqua da sorgenti più lontane (anche per l’inquinamento del Tevere, in cui sboccavano le cloache). Il primo acquedotto fu l’Aqua Appia, fatto costruire del 312 a.C., nel corso della seconda guerra contro i Sanniti, dal censore Appio Claudio, lo stesso che curò la costruzione della via che prende il suo nome; esso portava acqua da una sorgente distante circa dieci miglia a sud di Roma, nei pressi dell’Aniene. L’acqua passava in condotte sotterranee per la maggior parte del percorso, a una profondità di circa 15 metri, e per superare le depressioni e regolare il flusso di pendenza in parte sopra file di alti archi, secondo una tecnica che fu poi sempre adottata per gli acquedotti romani, e si raccoglieva in un bacino in un luogo chiamato ad spem veterem (poiché in tempi antichi vi sorgeva un santuario dedicato alla dea Spes, “speranza”); poi veniva portata con altre condotte dal Celio e l’Aventino e terminava nel Foro Boario.
Si calcola che la portata dell’Aqua Appia fosse di 34.000 metri cubi di acqua al giorno. Dopo questo primo acquedotto ne furono costruiti altri nove, l’ultimo all’epoca dei Severi; si calcola che gli acquedotti trasportassero in città circa 1.800.000 ettolitri al giorno, il che significa che ogni romano, ai tempi dell’Impero, aveva a disposizione 180 litri di acqua ogni giorno. Ma il sistema degli acquedotti fu esportato anche nelle province: le maggiori città ne erano servite durante l’epoca imperiale, e imponenti resti degli acquedotti romani sono ancora visibili in Spagna, Francia, Africa, Asia Minore; uno dei più grandi fu l’acquedotto di Cartagine, costruito all’epoca di Adriano.
L’acqua serviva alle esigenze quotidiane, oltre che per alimentale le numerose terme a cui gran parte della popolazione, sia a Roma che nelle città di provincia, si recava giornalmente. Le terme (dal greco, “acque calde”) erano in origine acque calde naturali che sgorgavano dalla terra; già in Grecia però si costruivano piscina artificiali annesse ai ginnasi, dove i giovani andavano a tuffarsi dopo gli esercizi atletici. Ma fu in epoca imperiale che le terme si svilupparono enormemente. Dopo le prime, che furono costruite a cura di Agrippa nel 25 a.C., successivamente Roma fu dotata di edifici termali sempre più grandiosi e imponenti, come le Terme di Caracalla e quelle di Costantino).
Le terme consistevano strutturalmente in enormi edifici in cui vi erano vasche di acqua fredda e calda e bagni di vapore, ottenuti mediante un evoluto sistema di riscaldamento in condutture affogate nei muri o sotto i pavimenti; ma erano anche qualcosa di più: un luogo di ritrovo per la popolazione, in cui vi erano sale di incontro, biblioteche e palestre. Esistevano terme di tutti i livelli, da quelle lussuose-private riservate agli aristocratici a quelle popolari. La frequentazione delle terme fu uno dei costumi più diffusi in epoca imperiale, e anzi uno dei maggiori segni identificativi e distintivi della cultura romana rispetto a quella dei barbari: l’igiene personale era un segnale di civiltà. Alla fine dell’epoca antica l’impoverimento e lo spopolamento delle città, la distruzione degli acquedotti e altre varie ragioni portarono all’abbandono delle terme, che in Europa scomparvero quasi completamente con la fine dell’epoca antica. Continuarono invece a funzionare le fonti termali calde, laddove scaturivano dal suolo, come luoghi di cura.