«Io non pongo limiti alla potenza dei Romani, né confini di tempo: ho concesso loro un impero senza fine»
Sono le parola che nell’Eneide di Virgilio, scritta al tempo di Augusto, pronuncia Giove in persona: l’Impero romano non avrà limiti né di spazio né di tempo, perché questa è la volontà del signore degli dei. Nasce in quel momento, nella cultura latina, l’idea dell’eternità di Roma: l’idea che essa sia destinata a durare per sempre, a riprendersi dopo ogni sconfitta, grazie al valore dei suoi cittadini ma soprattutto alla protezione degli dei. Proprio Augusto, del resto, aveva fatto allestire una carta geografica gigantesca e l’aveva esposta nel Portico di Agrippa, perché tutti i cittadini potessero valutare le dimensioni dell’Impero: e certo chi guardava quella carta, e poi alzava gli occhi sui templi luccicanti di marmi e statue che riempivano il Foro, doveva avere l’impressione di una potenza destinata a sfidare il tempo. I contemporanei di Augusto non avevano bisogno di credere nell’eternità di Roma, poiché essi la potevano vedere dovunque volgessero il loro sguardo.
È invece al tramonto dell’Impero che il motivo della città eterna diventa insistente, quasi ossessivo, per esempio sulle monete. Nella cultura romana la moneta è anche un mezzo di comunicazione, un veicolo attraverso il quale il potere politico fa conoscere le sue parole d’ordine, perciò in una moneta le scritte contano quanto le immagini. Ora, dalla fine del III secolo ritornano con insistenza due diciture che troviamo su migliaia di monete: “ritorno a un tempo felice” ed “eternità dell’Impero”. Eppure si tratta degli anni in cui i barbari violano ripetutamente la frontiera e gli imperatori cadono sul campo di battaglia o vengono fatti prigionieri dai nemici.
Come va interpretata questa insistenza sul motivo della città eterna? Probabilmente come la riaffermazione tenace, e in alcuni casi disperata, di una certezza nella quale tanto più si vuole credere quanto più la realtà di ogni giorno sembra smentirla. In fondo, Roma aveva attraversato altre crisi micidiali nel corso della sua storia, e si era sempre ripresa: perché non poteva accadere così anche questa volta? La fiducia nell’eternità di Roma si fa più insistente proprio negli anni intorno al sacco del 410 d.C., e non è un’illusione di persone incapaci di guardare in faccia la realtà, ma è molto di più: essa in realtà è l’espressione di una grande paura e, nello stesso momento, di un’ostinata volontà di resistere.
Ecco un passo esemplare sul motivo dell’eternità di Roma scritto nel 400. L’autore, Claudiano, che visse alla corte di Onorio (figlio di Teodosio), ribadisce [si riporta l’Elogio di Stilicone (3, 138-160)] l’incrollabile fiducia nella capacità di Roma di riprendersi da qualsiasi sconfitta: per il poeta, l’Impero di Roma coincide con l’intero mondo conosciuto, quindi il suo possibile crollo non gli appariva come un’autentica catastrofe cosmica.
«Ecco colei che, nata in angusti confini, li estese ai due poli e da piccola sede disseminò i suoi manipoli dietro al corso del sole. Unica, contro il destino, sostenne ad un tempo innumerevoli scontri, e prese la Spagna, assediò città siciliane, prostrò in terra la Gallia, Cartagine in mare, mai soccombendo ai rovesci, mai spaventata dai colpi; […] né si fermò per l’Oceano, ma entrata nell’alto coi remi cercò in altri mondi i Britanni da vincere. Ecco colei che sola accolse i vinti nel grembo e stinse a sé il genere umano con l’unico nome di madre, chiamando, non come padrona, cittadini quanti domò e legando gli estremi con nodo amorevole. Alla sua natura pacifica tutti dobbiamo se lo straniero trova dovunque la patria, se è permesso mutare di sede, […] se tutti siamo un unico popolo. Né mai una fine vi sarà al dominio di Roma.»
Il motivo dell’eternità di Roma è presente soprattutto in testi epici e storiografici, oppure nei cosiddetti panegirici, cioè in scritti che tessono l’elogio dell’imperatore o di importanti personaggi della corte: dunque in opere “serie”, destinate a esprimere la visione del mondo, i valori e le attese dell’élite politica e sociale che, tra il IV e il V secolo guida Roma nell’ultimo, decisivo passaggio della sua storia. Ma in questi decenni si continua a comporre anche molta poesia “leggera”, di intrattenimento elegante, che punta a dilettare il lettore e a mostrare il virtuosismo del poeta. Nella tarda antichità, in questo tipo di produzione uno dei temi più ricorrenti è quello delle rose. La bellezza del fiore, la sua perfetta eleganza, i suoi colori pallidi o brillanti, la sua fioritura splendida ma breve sono richiamati in moltissimi componimenti, come se ogni poeta volesse entrare in gara con i predecessori e mostrarsi capace di trarre variazioni sempre dal medesimo tema. Vediamo di seguito due di questi brevi carmi, entrambi di autore anonimo.
«O quali rose al mattino ho visto venire alla luce! Adesso nascevano, eppure non avevano tutte la stessa età. La prima ancora coperta sollevava il bocciolo appuntito, la seconda nel bocciolo lasciava scorgere gli apici purpurei, la terza aveva aperto non interamente il cerchio della corolla, la quarta proprio in quel momento risplendette scoprendo il cuore del fiore. […] Cogli al mattino le rose, perché non periscano: così anche la vergine invecchia.»
«[…] Guardavo stupito la veloce rovina del tempo che fugge, e come, appena avuto il tempo di nascere, fossero già vecchie le rose. Ecco: è caduta la rossa chioma di una purpurea rosa, mentre parlo, e la terra sfavilla, coperta di rosso. Tanti aspetti, tante fioriture e così vari mutamenti un sol giorno li inizia, lo stesso giorno li conclude. Leviamo un lamento, o Natura, perché così breve è la grazia dei fiori: subito rapisci i doni che agli occhi hai appena mostrato. Quanto è lungo un solo giorno, tanto lunga è l’età delle rose, ancora giovani la vecchiaia subito giunge.»
Come interpretare la diffusione di questo tema nella poesia tardo-antica? Si potrebbe dire che il motivo della rosa rappresenta il rovescio di quello dell’eternità di Roma: da un lato il fiore che vive un solo giorno, dal’altro la città destinata a sfidare i secoli, ovvero la precarietà contro la durata, l’effimero contro l’eterno. Se dunque l’insistenza su Roma eterna esprime le speranza degli uomini di quest’epoca tormentata, la loro fiducia n un futuro ancora possibile, quella sulla rosa bellissima ma destinata in un attimo a sfiorire, simboleggia anche le angosce di quegli stessi uomini, la paura di una fine che potrebbe giungere rapida, come l’appassire del fiore.
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