Alle frontiere settentrionali delle più antiche civiltà urbane del mondo antico, in quella che era una terra considerata ‘barbara’ e allo stesso tempo favolosa nell’immaginario antico, vivevano quel mosaico di popoli che sono comunemente passati alla storia con il nome di Sciti e Sarmati.
Si trattava di un insieme eterogeneo di popolazioni nomadiche che vivevano nelle steppe eurasiatiche, che però possedevano elementi culturali e artistici comuni. Le denominazioni di Sciti e Sarmati si iniziano a distinguere, successivamente al VII secolo a.C., in relazione ai territori occupati: con il primo si designavano le popolazioni di Crimea, Caucaso e Ucraina, mentre con il secondo quelle del bacino del fiume Don e dei monti Urali. Successivamente le denominazioni finiranno per designare anche uno stile di vita differente: gli Sciti sono quelli che, nelle regioni che affacciavano sul Mar Nero, iniziarono a sedentarizzarsi in piccoli centri e a praticare l’agricoltura, mentre i Sarmati continuarono a mantenere uno stile di vita basato sul nomadismo. Le denominazioni dei popoli nomadi sono comunque ‘riduttive’: infatti ve ne sono altre – più lontane dal contesto storico-geografico europeo, pertanto non riportate – che designano popolazioni stabilitesi più ad oriente (dall’attuale Kazakistan fino alla Siberia) culturalmente affini. Le principali notizie storiche ci giungono da Erodoto: tralasciando gli elementi favolistici dello storico greco, le principali caratteristiche che li contraddistinguono sono principalmente l’oro, che viene usato persino sui crani dei nemici (riadattati a coppe), le spade corte usate in battaglia, i vestiti morbidi, i cappelli appuntiti, i baffi e le barbe. Lo stesso Erodoto, che cerca di tracciare un parallelo con i popoli mediterranei e mesopotamici, giunge a riconoscere che le differenze insediative sono un punto di forza per gli Sciti, che li rendeva invincibili: un giudizio molto simile lo elaborarono anche gli stessi Persiani, che con Dario I tentarono di invadere la Scizia con un esito a dir poco disastroso. Da parte greca, la loro origine mitologica veniva fatta risalire ai discendenti nati in seguito ad una relazione di Ercole con un essere ibrido donna-serpente.
Le tracce lasciate da queste popolazioni sono davvero poche. La principale tipologia di costruzione conservatasi è quasi esclusivamente quella funebre, ed è costituita dai kurgan, dei tumuli funerari – che potevano raggiungere anche notevoli dimensioni – le cui stanze interne traviate erano destinate ad ospitare le sepolture delle elìte dominanti. I personaggi di spicco venivano sepolti con i loro cavalli, che costituivano la principale ricchezza nonché simbolo dei nomadi. Anche i materiali utilizzati nella vita comune hanno dovuto affrontare la deperibilità del tempo: salvo alcuni rari casi di ritrovamenti in ghiaccio di legno, cuoio o feltro, gran parte dei ritrovamenti è costituita da (pochi e preziosi) oggetti in oro conservati nelle tombe. Il tema dominante dell’oggettistica è quello animalistico, che risente dal punto di vista della lavorazione delle varie migrazioni e dei vari contatti avuti con il mondo sedentario. La scelta di questi soggetti andrebbe ‘spiegata’ con lo stretto contatto di queste popolazioni con il mondo della natura, sul quale molto probabilmente erano riflessi le proprie credenze e i propri culti. Lo stile animalistico si presenta tuttavia eterogeneo nella sua stilizzazione grafica: se le popolazioni più prossime alle civiltà sedentarie tendevano ad esaltare dinamismo e accentuavano le caratteristiche peculiari (o a volte imitavano a pieno modelli esterni), quelle più lontane risentivano di una deformazione espressiva che portava sì all’esaltazione dei caratteri animali, ma li rendeva sproporzionati rispetto alle proporzioni naturali.
Un altro filone artistico dell’oreficeria è quello figurativo-umano che però, al contrario di quello animalistico, si presenta in gran parte influenzato dai modelli dell’oreficeria ellenica.
Prendiamo come esempio il “pettine di Solokha” (fine V-inizio IV secolo a.C.). L’orefice è sicuramente un artigiano di cultura greca, il che è deducibile dai seguenti elementi: soggetto (episodio mitico su contesa dinastica scitica tra principi Octamasade, Oriaco e Scile), abbigliamento e conoscenza dei costumi (lo scita ‘traditore’ – a sinistra, che sta per essere ucciso – indossa elmo tracio e corazza greca), adattamento e influenza artistica scitica (dimensioni ridotte, forte tridimensionalità, spessori ridotti) e greca (mancata sovrapposizione dei soggetti, piani di profondità in corrispondenza di ogni scudo).
I principali centri di contatto con il mondo mediterraneo erano gli empori greci nel Mar Nero, che fungevano da importanti tramiti culturali. Le caratteristiche peculiari dell’arte scitica toccheranno più apertamente l’Europa e la sua arte a partire dalle invasioni barbariche: stilizzazione grafica degli animali, ornamenti astratti e indifferenza verso volumi e tridimensionalità rifluiranno nell’arte occidentale (come ad esempio quella importata dai Longobardi) e diventeranno a loro volta alcune delle matrici artistiche dell’arte cristiana alto-medievale. Lo studio di queste popolazioni è stato notevolmente accentuato dall’inizio del XVIII secolo con campagne miranti a ricostruire l’identità culturale russa. La principale collezione di arte ‘classica’ scitica (VI-IV secolo a.C.) è tuttora il ‘tesoro dell’Hermitage’ a San Pietroburgo, nato come collezione imperiale della Russia zarista e successivamente arricchitasi di nuovi preziosi reperti provenienti dal Mar Nero agli Urali (specialmente dai siti più ricchi di Astrakhan e Filipovka).
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