La disfatta romana di Canne non fu una sconfitta come tutte le altre: mai come allora la Res Publica romana vide a rischio la sua stessa esistenza, e sembrava imminente un attacco cartaginese alla capitale. La notizia della sconfitta non tardò ad arrivare a Roma: convinti che l’intero esercito fosse stato ucciso in battaglia, nell’animo dei cittadini romani iniziarono a sopraggiungere paura e sconforto. A Roma venne indetta una giornata di lutto nazionale, e nel caos più totale si ricorse – dopo una rapida consultazione dei Libri Sibillini – persino al sacrificio umano, con il seppellimento di due coppie vive (un uomo e una donna, due greci e due galli) nel Foro Boario. In realtà non tutti, ma solo la maggior parte, morirono nel massacro di Canne. Nella vicina Venosa prima e a Roma poi iniziarono a giungere quanti erano scampati alla battaglia, per la maggior parte ‘disertori’ – e con loro il console Varrone – che avevano abbandonato anzitempo il campo di battaglia convinti dell’inevitabilità della sconfitta: compatiti da alcuni e incolpati da altri, essi uscirono ‘vergognosamente’ di scena e inviati in Sicilia.
Sulla scena politica salgono alla ribalta Quinto Fabio Massimo e Publio Cornelio Scipione, che iniziarono a riorganizzare (o meglio, a ricostituire da zero) un esercito in grado di fronteggiare Annibale, includendovi anche minorenni e schiavi. L’atteggiamento irriducibile dei Romani Massimo e Scipione, fece sì la paura lasciò presto posto alla voglia di riscatto. Se Roma ebbe un vantaggio che Annibale non ebbe mai, questo era la capacità di rinnovarsi e di avere sempre forze nuove a propria disposizione: mentre la Res Publica, nonostante le defezioni di alcuni alleati, poteva permettersi di formare nuove legioni dopo averne perse molte dall’inizio della Seconda Guerra Punica, Annibale rimaneva grossomodo ‘isolato’ in Italia nonostante le vittorie sul campo di battaglia. Molto probabilmente fu questo che lo indusse a fermarsi in Italia meridionale e a rinunciare ad un assedio su Roma, tentando invece la soluzione diplomatica (respinta dal Senato).
Nei testi riportati di seguito di Silio Italico e Tito Livio vediamo le immediate reazioni suscitate dalla sconfitta di Canne a Roma.
Silio Italico, Punica, X, 578-658
La fama crescente ormai toccava le stelle; era penetrata in mare e in terra e subito a Roma. Diffidano delle mura; solo la rocca dà speranza alle loro paure, non è sopravvissuta la gioventù romana e l’Italia è un nome vuoto senza sostanza. Se ancora il nemico non ha passato le porte, pensano che tardi per disprezzo. Già vedono bruciare le case, devastare i templi, uccidere davanti ai loro occhi i bambini e fumare i sette colli. Una sola giornata piangeva duecento sedie curiali, rovesciate, sessantamila giovani morti e le mura vacillanti di Roma e questo dopo la Trebbia, dopo il lago d’Etruria [Trasimeno] e il numero degli alleati caduti in battaglia non era minore.
Ma lo stesso i senatori superstiti, gruppo pio, si impossessano delle cariche sorteggiate. Passando rapido fra tutti, Fabio grida ispirato: “Non resta più nessuna ragione di temporeggiare, credetemi; affrettiamoci, perché il nemico osi invano attaccare le mura armate. La fortuna avversa è alimentata dai pavidi con la loro inerzia e cresce con la paura; andate dunque presto, strappate le armi dai templi, giovani; spogliate gli atri e usate in guerra gli scudi presi al nemico. Siamo abbastanza per la patria se il nostro numero non cala per la paura al momento della battaglia; è in campo aperto che c’è da temere il disastro; ma i Mauri agili nel volteggiare senz’armi non riusciranno a distruggere mai le nostre mura”.
Mentre Fabio incoraggia le menti piombate nella paura, si diffonde sulle mura la voce che Varrone stia per arrivare e riempie gli animi di terrore oscuro; come se il comandante di una nave naufragata arrivasse a nuoto in una spiaggia deserta, solo superstite – restano in dubbio e trepidazione se tendergli o negargli la mano e odiano che si sia salvato lui solo, sopravvivendo alla nave perduta.
Quale peste tiene dietro all’uomo che osa accostarsi alle porte e arriva come un presagio infausto a chi ha paura! Calmando queste rimostranze, Fabio mostrava che è brutto irritarsi per le sconfitte e distoglieva il volgo dalla collera: abbandonarsi all’avversità non è degno di uomini che ascrivono a Marte la propria origine, e neppure non nascondere il dolore e cercare conforto nel castigo. Se gli è permessa una lagnanza fondata, per lui era stato più triste il giorno che vide andare Varrone al campo di quello che tornò senza le armi.
A queste parole le minacce cessarono e i cuori cambiarono improvvisamente, ora hanno pietà della sua sorte ora pensano che hanno tolto ad Annibale il piacere d’aver ucciso due consoli. Tutto il popolo dunque si riversò in lungo corteo a rallegrarsi, ad attestare che fu da anime grandi fidare negli avi e nello scettro superbo e non disperare nella città dei Dardanidi [Roma].
Non per questo meno infelice della sua colpa e turbato dalla vergogna, il console trascinava piangendo i suoi passi incerti verso le mura; si rammaricava di alzare gli occhi bassi, di vedere la patria e rinnovare il suo lutto. Se il popolo e i senatori gli venivano incontro, non era per rallegrarsi, ma ciascuno chiedeva i figli e i fratelli; le madri infelici venivano certo a straziare la faccia del console. Così accompagnato in città da molti littori, rifiutava un onore che gli dei condannavano.
Ma Fabio e i senatori, scacciando via la tristezza, affrettano il loro impegno, precipitandosi a scegliere tra i giovani schiavi guerrieri e ad armarli; il campo non viene chiuso dal pudore, che conta meno della salvezza. Sono ben decisi a riportare il regno di Enea al suo destino con qualunque mano e in difesa della rocca, del regno, della libertà, dell’onore, armare anche le mani dei servi. I ragazzi spogliano il loro corpo della toga pretesta e cingono armi inconsuete; i visi puerili si chiudono dentro un casco e ricevono l’ordine di diventare uomini uccidendo i nemici. E mentre i prigionieri [romani] pregavano di riscattarli per un pugno d’oro, ed erano molte migliaia, ebbero il coraggio di consegnarli ai Punici stupefatti. Tutti i delitti e le colpe erano inferiori al fatto d’essersi fatti catturare con le armi. Ai condannati per la fuga fu imposto un lungo servizio sulle coste sicule, finché il nemico avesse lasciato il Lazio.
Questa era Roma allora; se dopo di te, Cartagine, era destino che i costumi cambiassero, era meglio che restassi in piedi.
Tito Livio, Ab Urbe Condita, XX, 53-54
Poiché sul posto si trovavano quattro tribuni militari – per la prima legione Quinto Fabio Massimo, il figlio del dittatore dell’anno precedente; per la seconda Lucio Publicio Bibulo e Publio Cornelio Scipione; per la terza Appio Claudio Pulcro, che recentemente era stato edile – il comando supremo fu assegnato all’unanimità a Publio Scipione (ancora giovanissimo) e ad Appio Claudio. Ad essi, nel corso di una consultazione indetta tra pochi sulla situazione dello stato, Publio Furio Filo, figlio di un ex console, dichiarò che nutrivano inutilmente una speranza impossibile; lo Stato si trovava in una condizione deplorevole e disperata; alcuni giovani nobili, a capo dei quali era Lucio Cecilio Metello, guardavano al mare e alle navi per abbandonare l’Italia e rifugiarsi presso qualche re. Questo rischio, oltre che atroce inusitato, pur dopo tanti disastri, paralizzò e agghiacciò i presenti, che espressero l’opinione di convocare su questo punto il consiglio di guerra; ma il giovane Scipione, comandante designato dal fato per questa guerra, dice che non è argomento da consiglio: in una simile situazione si doveva osare e agire, non consultarsi. Quelli che volevano salvo lo stato, prendessero le armi e andassero con lui. Nessun accampamento appartiene più autenticamente al nemico di uno in cui si fanno questi progetti. Seguito da pochi, si precipita nell’alloggio di Metello e, trovando qui radunati i giovani di cui gli era stato riferito, sguainò la spada sulle loro teste mentre discutevano e disse: “In fede mia, come è vero che non abbandonerò lo stato romano e non permetterò che nessun altro cittadino romano lo abbandoni, se manco scientemente al mio giuramento ti prego, Giove Ottimo Massimo, di colpire di mala morte me, la mia casa, la mia famiglia, le mie sostanze. A te, Lucio Cecilio, e a tutti voi qui presenti, chiedo che giuriate su queste parole; chi non giurerà, sappia che questa spada è sguainata contro di lui”. Tutti quanti giurano, non meno atterriti che se vedessero davanti a sé il vincitore Annibale, e si mettono sotto la sorveglianza di Scipione.
Mentre questi fatti accadevano a Canosa, a Venosa giunsero presso il console Varrone circa quattromilacinquecento tra fanti e cavalieri, che si erano dati alla fuga attraverso le campagne. I Venosini li distribuirono tra tutte le famiglie perché fossero accolti con benevolenza e curati, e diedero a ogni cavaliere una toga e una tunica e venticinque quadrigati, a ogni fante dieci quadrigati, oltre alle armi per coloro che non ne avevano. Fu curata ogni altra forma di ospitalità pubblica e privata, facendo a gara perché il popolo di Venosa non fosse vinto in sollecitudine dalla donna di Canosa. Ma il gran numero rendeva troppo oneroso l’aggravio per Busa, perché già si trattava di circa diecimila uomini. Appio e Scipione, appena saputo che uno dei due consoli era sano e salvo, mandarono subito a informarlo di quante truppe di fanteria e cavalleria si trovavano con loro, e a chiedergli
se ordinava che l’esercito fosse condotto a Venosa o restasse a Canosa. Varrone invece spostò a Canosa le sue truppe, e c’era dunque una qualche apparenza di esercito consolare: sembravano in grado di difendersi dal nemico sicuramente con le mura, se non con le armi.
A Roma non era stato annunciato che fossero nemmeno sopravvissuti questi resti di cittadini e alleati, ma si credeva che l’esercito fosse stato massacrato col massacro dei suoi capi, e che le truppe fossero state completamente sterminate. Mai con la città salva ci fu tanto terrore e tumulto dentro le mura di Roma. Io mi dichiaro inferiore al mio compito, e non cercherò di raccontare quello che raccontato
risulterebbe troppo inferiore al vero. Dopo che l’anno precedente al Trasimeno si era perduto un esercito e un console, ora si annunciava non un’altra ferita, ma una strage molteplice: perduti due eserciti consolari assieme a due consoli; non c’era più un campo romano né un comandante né un soldato. L’Apulia, il Sannio e ormai quasi tutta l’Italia appartenevano ad Annibale. Ogni altro popolo sarebbe stato schiacciato da un così enorme disastro. Si può confrontare con questa la sconfitta dei Cartaginesi nella battaglia navale delle isole Egadi, per cui furono costretti a ritirarsi dalla Sicilia e dalla Sardegna, e accettare di diventare tributari e sudditi; oppure la sconfitta che il medesimo Annibale ricevette poi in Africa: ma non sono confrontabili se non per il fatto che furono sopportate con minor forza d’animo.
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