Ad oggi è difficile farsi un’idea precisa della fauna che prosperava in età medioevale. Attraverso le fonti scritte, archeologiche e toponomastiche vi si può tuttavia credere che vi fosse una compresenza di specie diverse, che oggi non sarebbe neanche lontanamente riscontrabile. Le specie selvagge e quindi maggiormente cacciate erano il cervo e il cinghiale, la cui pratica era “legalmente” riservata a gruppi di nobili a cavallo. I percorsi di caccia, in aree per lo più segnate da grandi foreste, seguivano degli itinerari ben consolidati, di cui si ha traccia anche nella toponomastica medievale: un esempio può essere dato dai nomi Cerviara o Cervialto nei Picentini (tra le province di Salerno e Avellino). Altre aree (waldu) godevano poi di un effettivo status di riserva di caccia, la cui estensione era di due miglia per uno (come Cerbarezze, AV); così come le alture a sud-est della Salerno longobarda erano riservate esclusivamente al principe regnante, chiamate appunto cerbaricia dominica.
Nella stessa storia longobarda nel Meridione non mancano episodi avvenuti durante battute di caccia che hanno per protagonisti gli stessi principi. Nel 830, i principi di Salerno Sicardo e Sicone avvistarono un cervo di enormi dimensioni e si lanciarono al suo inseguimento con i loro seguiti. La distanza percorsa fu tale che giunsero – senza quasi rendersene conto – fino a Conza, ai confini settentrionali del Principato: l’episodio, di presunto sconfinamento e del mancato rispetto della giurisdizione sui rispettivi territori di caccia, fu alla base di un violento conflitto tra i Longobardi di Conza e quelli di Acerenza.
L’elemento selvatico rientra anche in un complesso di storie longobarde dall’alone leggendario, il cui sfondo nonché pretesto narrativo è dato proprio dalla caccia. Nel 849 il principe di Salerno Siconolfo morì colpito da un forte attacco di febbre, ma non prima di aver ucciso (qualche giorno prima) un grande cinghiale nella suddetta Cerbaricia, anticipando i suoi compagni. Un altro episodio, molto più tragico, ebbe come protagonista il nobile beneventano Agelmondo, che aveva partecipato alla congiura per spodestare Grimoaldo III (assassinato) a vantaggio di Sicardo. Nei pressi del Sele, sempre durante una battuta di caccia con il falcone, Agelmondo si ritrovò solo ed ebbe l’apparizione del principe assassinato a cavallo che con la spada sguainata gli si lanciò contro: questi disarcionò Agelmondo che ebbe il tempo di gridare ed avvertire i suoi compagni dell’apparizione per poi morire. Questi ultimi due racconti danno anche l’idea delle strategie venatorie longobarde: la caccia al cervo o al cinghiale era una caccia di gruppo, mentre quella agli uccellagione era per lo più individuale.
Quali erano le pene per chi trasgrediva il divieto di caccia nelle riserve reali? Non si hanno documentazioni in merito ai suddetti anni ma, cosa si potrebbe dedurre ciò da documentazioni del XIII secolo, che testimoniano che la caccia, o la raccolta di legname, venisse punita con la prigione; ogni area era perciò sorvegliata da guardiani al servizio dei regnanti.
Un ultimo aspetto è quello della presenza di lupi e orsi in questi territori, presenza comprovata anche dalla toponomastica locale (Valle del Lupo, Valle dell’Orso, Orsata). Non mancano attestazioni di attacchi di lupi a danno degli allevamenti di bovini, attacchi che si moltiplicavano nel caso di inverni rigidi che limitavano la disponibilità di cibo per questi animali. Queste “discese a valle” furono frequenti almeno fino al XV secolo, e le stesse autorità (sia laiche che religiose) in casi eccezionali giunsero anche ad offrire ricompense in denaro per chi avesse abbattuto lupi, fino a considerare la difesa dal lupo quasi come un dovere analogo alla difesa dei castelli o dei centri abitati, quasi alla pari di un assedio.
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