Storia e tecniche di lavorazione di alcuni dei più conosciuti e apprezzati colori dell’antichità, su tessuto (porpora; bisso) e in pittura (rosso pompeiano). Buona lettura!
La porpora. Fra le numerose attività artigianali che alimentavano la grande vocazione commerciale delle città-stato della Fenicia, una delle più importanti e leggendarie è quella legata alla lavorazione e al commercio della porpora, un’attività così rilevante da identificare con il colore prodotto (phoinix) anche il nome dei Fenici stessi. La porpora è un bel colore rosso che poteva andare dal rosso scarlatto al rosso cupo fino al violaceo, ed è da sempre associato a simboli di regalità e sacralità. La tintura in porpora è indelebile, perciò particolarmente pregiata, e veniva utilizzata per le stoffe di lino o di lana prodotte localmente o importate dall’Egitto.
I Fenici fabbricavano il pigmento necessario per la colorazione delle stoffe a partire dalla raccolta dei murici, un particolare genere di molluschi monovalvi, un tempo reperibili in grandi quantità sui fondali bassi di tutte le coste del bacino del Mediterraneo. La pesca era forse effettuata tramite nasse contenenti esche. Dopo la raccolta, i molluschi venivano conservati per un breve periodo in grandi vasche collocate ai margini del centro abitato. In questa fase veniva rotta la conchiglia che ricopriva il mollusco e, dopo la macerazione in acqua, i resti calcarei delle conchiglie venivano eliminati. Il pigmento concentrato ottenuto dai molluschi macerati veniva poi diluito con acqua marina in base all’intensità di colore che si voleva ottenere ed era pronto per essere utilizzato nelle operazioni di tintura delle stoffe. L’attività di preparazione della porpora era così sviluppata che a ricordo rimangono ancora oggi enormi banchi di gusci infranti, collocati in posizione periferica rispetto agli antichi centri urbani a causa del cattivo odore emanato dal prodotto durante le prime fasi del processo di lavorazione.
Il bisso. Il bisso è un tessuto preziosissimo, nonché un colore, con il quale in Egitto, poi nell’antica Grecia e successivamente a Roma, venivano confezionati manti regali e sacerdotali, paramenti per altari e guarnizioni per abiti femminili. È caratterizzato da una morbidezza e da una leggerezza superiori a qualunque altra stoffa e da sempre è sinonimo di tessuto prezioso. “Bisso” è anche chiamato un tipo di tela di lino finissimo, usata anticamente per confezionare abiti di lusso con ricchi ricami in seta, fili d’oro e d’argento e pietre preziose.
Il cosiddetto “bisso marino” si ricava dai filamenti della conchiglia di un mollusco, la Pinna nobilis, che si trova nelle acque del Mediterraneo e del Mar Rosso (oggi è considerata a rischio di estinzione). Tali filamenti, lunghi 15-30 centimetri, di un bel colore bruno dorato, sono prodotti da una ghiandola, detta bissogena, secernente una sostanza glutinosa che condensandosi a contatto con l’acqua forma il fiocco di fibre con le quali il mollusco si aggrappa agli scogli. Dopo la pesca delle conchiglie le fibre vengono prima pulite e poi lasciate asciugare al sole. L’antica lavorazione del bisso prevede accurati lavaggi e delicate battiture per eliminarne le impurità senza però romperne le fibre. Dopo l’asciugatura al sole poteva essere trattato con succo di limone o con una leggera soluzione di acido ossalico e sale di acetosella. Quindi le fibre venivano cardate, pettinate, e poi passate alla filatura e tessitura. I tessuti in naturale assumono una particolare colorazione dorata cangiante con riflessi quasi verdognoli.
Il rosso pompeiano. Riguardo alle tecniche della pittura romana ci forniscono molte informazioni sia Plinio che Vitruvio: entrambi gli autori descrivono la preparazione dell’intonaco per la pittura ad affresco. Vitruvio nel De Architectura scrive in proposito:
(…) riguardo ai colori accuratamente applicati sull’intonaco umido, essi non si staccheranno mai, ma resteranno sempre.
In realtà, secondo gli studiosi, nel caso delle pitture di Pompei non si tratta di veri e propri affreschi, perchè non sono visibili iraccordi che delimitano le varie parti del lavoro e le tinte utilizzate sono instabili alle reazioni chimiche che avvengono nell’intonaco durante l’asciugatura dell’affresco. Si tratta quindi di una specie di decorazione a tempera, realizzata con pigmenti sciolti in calce idrata e saponificata, addizionata a materie grasse che neutralizzano la causticità.
Le fonti antiche sono molto chiare riguardo i colori utilizzati nelle pitture: Plinio suddivide i colori in due categorie, colores floridi e colores austeri, i primi trasparenti, i secondi coprenti. I più preziosi tra questi ultimi sono il minio e il cinabro, molto coprenti, che erano mescolati per ottenere il tono rosso intenso che prende il nome di rosso pompeiano:
- il minio, chiamato anche cerussa usta, è un pigmento rosso aranciato, di origine artificiale (protossido di piombo), ottenuto tramite la cottura del piombo in presenza di aria.
- il cinabro è un tono di rosso più intenso e scuro, pigmento di origine minerale (solfuro di mercurio), ricavato dal cenabrio, un minerale rintracciabile nelle miniere dell’Amiata in Toscana.
Oltre alla calce idrata e saponificata usata come legante, i colori sono ulteriormente protetti dalla finitura encausticata, ossia lucidata tramite una stesura finale di uno strato di cera. Lo strato più superficiale dell’intonaco, quello a contatto con i colori, è realizzato con una leggerissima polvere di marmo e alabastro. Il risultato finale produce un effetto straordinariamente lucente e compatto, conservatosi sino ai giorni nostri.
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