Gli imperatori romani nella “Divina Commedia” di Dante
Dove vennero collocati gli imperatori romani da Dante nella sua Divina Commedia? Al di là delle citazioni nell’opera di una buona parte di essi, vediamo nel seguente articolo le quattro figure principali che, nell’immaginario dantesco, si ritrovano o a colloquiare proprio con lui o ricorrono ampiamente nelle parole di altri personaggi. Alcune delle cose che diranno i personaggi potranno sembrare al lettore scontate, altre errate: non stupitevi, né scandalizzatevi, poiché in esse vi sono parte delle credenze e considerazioni storiche che nel Duecento e nel Trecento (pieno Medioevo) erano normale parte integrante del sapere storico.
Vi auguriamo una buona lettura!
Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) è stato un uomo politico, nonché condottiero e dittatore dell’antica Roma. Dante lo considerava il primo imperatore romano e come tale lo cita varie volte nel corso del suo poema, sempre in termini molto positivi. In Inf., I, 70 Virgilio dice di essere nato sub Iulio, ancor che fosse tardi, alludendo al fatto che la giovinezza del poeta si svolse negli ultimi anni del dominio di Cesare. Il personaggio ricompare poi in Inf., IV, 123, tra gli «spiriti magni» del Limbo, dove è definito armato con gli occhi grifagni. In Inf., XXXIV, 55-67, Lucifero è descritto intento a masticare in due delle sue tre bocche i corpi di Bruto e Cassio, i due principali cesaricidi colpevoli di tradimento (il terzo peccatore dilaniato dal diavolo è Giuda, traditore di Cristo). In Purg., XVIII, 101, Cesare è citato tra gli esempi di sollecitudine in quanto per soggiogare Ilerda nella guerra civile contro Pompeo prima colpì Marsiglia e poi si affrettò in Spagna.
In Par., VI, 55-72 Giustiniano dedica a Cesare un’ampia parentesi, descrivendo le sue imprese nell’ambito della rievocazione storica del percorso dell’aquila imperiale.
Cesare è poi citato varie volte nel trattato sulla Monarchia quale fondatore dell’Impero romano, nonché nel Convivio. Il nome di Cesare è inoltre usato da Dante svariate volte come sinonimo di imperatore, sia per indicare gli imperatori romani, sia per alludere ai titolari del Sacro Romano Impero.
Giulio Cesare Ottaviano Augusto (63 a.C. – 14 d.C.) è stato un uomo politico e il primo imperatore romano. Dante lo cita per la prima volta in Inf., I, 71, quando Virgilio si presenta dicendo di essere vissuto a Roma sotto ‘l buono Augusto. Non sappiamo se si trovi nel Limbo o altrove, poiché Dante non lo menziona né fra le anime del I Cerchio dell’Inferno (tra cui c’è invece Cesare) né fra le anime salve. Lo cita invece Giustiniano nel suo discorso in Par., VI, 73-81, dove dice che il successore di Cesare (Ottaviano) ne vendicò la morte vincendo Bruto e Cassio a Filippi, poi sconfisse Cleopatra ad Azio e quindi assicurò al mondo la pace, al punto che i Romani chiusero per sempre il tempio di Giano, che veniva aperto in caso di guerra.
Marco Ulpio Traiano è stato un imperatore romano (98-117 d.C.), adottato e designato come successore da Cocceio Nerva. Consolidò le frontiere su Reno e Danubio, cercò di migliorare le condizioni interne dello Stato e iniziò la fortunata spedizione che portò alla conquista della Dacia, l’odierna Romania (come celebrato nella Colonna Traiana a Roma). Non fermò le persecuzioni dei Cristiani – in forma minore rispetto ad altri imperatori – ed è nota la sua corrispondenza in tal senso con Plinio il Giovane, allora governatore della Bitinia. Fu ricordato per la sua clemenza e il senso della giustizia, forse per contrasto col predecessore Domiziano che era considerato un tiranno.
Dante lo include fra i beati del VI Cielo di Giove, dando credito a una leggenda assai diffusa nel Medioevo e in base alla quale papa Gregorio Magno, venuto a conoscenza di un atto di umiltà e giustizia compiuto dall’imperatore pagano, pregò intensamente per la sua salvezza fino a ottenerla (del fatto i teologi offrivano una compiuta spiegazione dottrinale). La leggenda è richiamata in Purg., X, 73-93, fra gli esempi di umiltà scolpiti all’ingresso della I Cornice: Traiano è raffigurato a cavallo, in procinto di partire per una spedizione, quando una vedova gli si avvicina chiedendogli giustizia per il figlio ucciso. Inizialmente l’imperatore si schermisce, poi, di fronte alle insistenze della donna, accetta di rimandare la partenza e di fare il suo dovere (la virtù dimostrata dal principe mosse Gregorio a la sua gran vittoria).
Traiano compare poi nel Canto XX del Paradiso, allorché l’aquila si rivolge a Dante e indica i beati che formano il suo occhio, ovvero gli spiriti che operarono per la giustizia e che sono più degni: tra essi, oltre a Costantino, c’è anche il pagano Traiano. Dante è sorpreso di sentire che un pagano sia fra i beati del Paradiso e l’aquila, che legge nella sua mente, scioglie subito i suoi dubbi: spiega che Traiano dopo la morte andò fra le anime del Limbo, poi il suo spirito fu richiamato in vita grazie alle preghiere di papa Gregorio; in questa breve resurrezione della carne, Traiano credette in Cristo venuto e ottenne così la salvezza. Attraverso l’esempio suo Dante sottolinea l’imperscrutabilità della giustizia divina, che può concedere la salvezza in modo del tutto imprevedibile a personaggi che nessuno si aspetterebbe di vedere tra le anime salve.
Flavio Giustiniano, fu imperatore romano d’Oriente dal 527 al 565 d.C., la cui fama è legata soprattutto alla riconquista militare dell’Occidente attraverso l’invasione dell’Africa del Nord e la guerra greco-gotica, nonché all’emanazione del Corpus Iuris Civilis con cui veniva risistemato il diritto civile romano, creando la base legislativa per i secoli successivi e il Medioevo. Al tempo di Dante le notizie sull’imperatore erano lacunose e questo spiega forse il fatto che il poeta ignori (o mostri di ignorare) i molti misfatti di cui Giustiniano si macchiò durante il suo principato, facendone la figura di un monarca esemplare in pieno accordo con la funzione spirituale della Chiesa. Infondata anche la notizia del monofisismo di Giustiniano, tratta dalle fonti storiche medievali e, forse, da Brunetto Latini (Trésor, I, 87).
Giustiniano si presenta narrando la sua vita (VI, 1-27), dichiarando di essere stato imperatore romano e di aver regnato a Costantinopoli duecento anni dopo il trasferimento della capitale voluto da Costantino, nonché di aver sfrondato le leggi dal troppo e dal vano (allude all’emanazione del Corpus Iuris Civilis). Confessa di aver aderito in vita all’eresia del monofisismo, dalla quale lo aveva tratto papa Agapito riportandolo alla fede; quindi si era dedicato alla riconquista militare dell’Occidente, affidando tale impresa al generale Belisario. A questo punto Giustiniano sente la necessità di far seguire una aggiunta alla risposta alla prima domanda di Dante, ripercorrendo (28-96) le fasi essenziali della storia di Roma e dell’Impero attraverso il percorso dell’aquila, ovvero del simbolo dell’Impero (il suo racconto spazia dal periodo di Roma monarchica e dell’antica Repubblica fino ai trionfi di Scipione e Pompeo, per poi arrivare a Giulio Cesare, Augusto, Tiberio, Tito e, infine, a Carlo Magno). Al termine di questa digressione (97-111), Giustiniano rivolge una dura invettiva a Guelfi e Ghibellini, colpevoli i primi di contrapporre al sacrosanto segno dell’aquila imperiale i gigli gialli della monarchia francese, i secondi di appropriarsi di quel simbolo di giustizia per i loro interessi di parte.
Alla fine del Canto VI (112-126) Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante, indicando i beati di quel Cielo come gli spiriti che hanno operato per la gloria terrena, i cui desideri sono stati rivolti ai beni materiali e meno all’amore divino, ragion per cui godono di un basso grado di beatitudine. Tuttavia, aggiunge, essi non desiderano una ricompensa maggiore, poiché godono della giustizia divina tanto quanto tutti gli altri spiriti. Alla fine del suo lungo discorso, Giustiniano intona l’inno Osanna, sanctus Deus sabaoth, quindi si allontana sfolgorando insieme alle altre anime (VII, 1-9).