Statua dell'eroe Eracle, detta "Eracle Farnese" per la sua lunga permanenza nel cortile di Palazzo Farnese. Rinvenuta nel 1546 presso le Terme di Caracalla in Roma, la statua è oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Corrisponde a una copia del II secolo d.C. dell'originale in bronzo di Lisippo (IV secolo a.C.). Da notare, sulla roccia sotto la clava, la firma del copista, Glicone scultore ateniese del II secolo d.C. Qui Eracle è rappresentato dopo la sua ultima fatica, la mano destra dietro la schiena tiene i pomi d'oro rubati nel giardino delle Esperidi. Dopo la fatica Eracle si riposa appoggiandosi a una roccia dove ha posato la sua clava e la leonté (quest'ultima, la pelle del Leone Nemeo, frutto della sua prima fatica). La statua è raffigurata nello stemma della città di Ercolano, che prende il nome proprio dall'eroe.

In questa seconda parte del ciclo dedicato all’eroe greco per eccellenza, Eracle, vedremo quali furono le famose Dodici Fatiche impostegli dal cugino Euristeo e quali furono i mostri affrontati per espiare, come sappiamo, la pena inflittagli da Era. Se vi siete persi il primo articolo ecco il link: La figura di Eracle: nome, origini, infanzia


Statua dell’eroe Eracle, detta “Eracle Farnese” per la sua lunga permanenza nel cortile di Palazzo Farnese. Rinvenuta nel 1546 presso le Terme di Caracalla in Roma, la statua è oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Corrisponde a una copia del II secolo d.C. dell’originale in bronzo di Lisippo (IV secolo a.C.). Da notare, sulla roccia sotto la clava, la firma del copista, Glicone scultore ateniese del II secolo d.C. Qui Eracle è rappresentato dopo la sua ultima fatica, la mano destra dietro la schiena tiene i pomi d’oro rubati nel giardino delle Esperidi. Dopo la fatica Eracle si riposa appoggiandosi a una roccia dove ha posato la sua clava e la leonté (quest’ultima, la pelle del Leone Nemeo, frutto della sua prima fatica). La statua è raffigurata nello stemma della città di Ercolano, che prende il nome proprio dall’eroe.

II. Le Dodici Fatiche. le dodici fatiche sono le imprese che Eracle eseguì per ordine del cugino Euristeo. Le tradizioni danno spiegazioni diverse di questa sottomissione dell’eroe a qualcuno che era lungi dall’essere suo pari e che ci si accorda nel presentare come un essere spregevole e «incompleto». L’Iliade racconta l’inganno d’Era, la quale rivoltò la promessa di Giove a vantaggio di Euristeo. Ma non deriva da ciò che Eracle fosse sottomesso personalmente al cugino, ancorché il ritardo della propria nascita ne facesse, in modo assai generico, il «suo suddito». Secondo Euripide, Eracle avrebbe desiderato ritornare ad Argo ed Euristeo avrebbe acconsentito, ma a condizione che prima eseguisse per lui degli incarichi, i principali dei quali avevano per scopo di liberare il mondo da un certo numero di mostri. Ma, più generalmente, si considera questa schiavitù come l’espiazione dell’uccisione dei figli ch’egli aveva avuti da Megara (delitto involontario, ma che nondimeno costituiva una contaminazione). Dopo questo crimine, Eracle era andato a Delfi a consultare l’oracolo di Apollo Pizio e quest’ultimo gli aveva ordinato di mettersi al servizio di suo cugino per una durata di undici anni. Apollo (e Atena) aggiunsero che come premio per la sua fatica avrebbe ottenuto l’immortalità. Queste varianti provengono dalla riflessione del pensiero greco sul mito, e rispondono al bisogno di giustificare moralmente le prove d’un eroe, che ci si compiaceva a rappresentare come il giusto per eccellenza. Esse non sono primitive nel mito (si veda la schiavitù di Apollo presso Admeto, come purificazione dall’uccisione dei Ciclopi, e, nello stesso ciclo eracleo, la schiavitù presso Onfale, come purificazione dall’uccisione d’Ificto). Nel pensiero mistico, le fatiche d’Eracle raffigurano le «prove dell’anima» che si libera progressivamente dalla schiavitù del corpo e delle passioni fino all’apoteosi finale.

Una variante ripresa da un poeta alessandrino, Diotimo, presenta Eracle come l’amante d’Euristeo. Egli si sarebbe sottomesso a tutti i capricci di quest’ultimo per compiacenza d’innamorato.

I mitografi dell’epoca ellenistica avevano stabilito un «canone» delle Dodici Fatiche, classificandole in due serie di sei. Le prime sei ebbero come teatro il Peloponneso; le altre sei sono distribuite nel resto del mondo: a Creta, nella Tracia, nella Scizia, nell’estremo ovest, nel paese delle Esperidi e degli Inferi. Tale ordine noi seguiamo qui. Tuttavia, esistevano numerose varianti, allo stesso tempo sulla successione delle Fatiche e persino sul loro numero (Apollodoro, per esempio, ne riconosce soltanto dieci).

Le armi d’Eracle. L’arma più caratteristica di Eracle, la sua clava, fu intagliata da lui stesso durante la sua prima fatica, la caccia al leone di Nemea.

Ora si ammette ch’egli la intagliò a Nemea stessa, ora che la fece sull’Elicona, o anche sulle rive del Golfo Saronico, nel tronco d’un ulivo selvatico. Le altre sue armi hanno un’origine divina: la spada gli fu data da Ermes, l’arco e le frecce da Apollo; una corazza dorava era un regalo di Efesto. Atena vi aveva aggiunto un peplo. Ma è notevole che, secondo altre tradizioni, proprio lei gli aveva fornito tutte le sue armi, tranne la clava. I cavalli, infine, erano un regalo di Poseidone.

Eracle affronta il leone di Nemea

Il Leone di Nemea. Il leone di Nemea è un mostro, figlio d’Ortro, egli stesso figlio di Tifone. Sua madre è Echidna. E’ fratello d’un altro mostro, la Sfinge di Tebe. Era lo ha allevato (o anche la dea della Luna, Selene, la quale l’avrebbe prestato ad Era) e l’ha posto nella regione di Nemea in cui devastava il paese, divorava gli abitanti e i loro armenti. Questo leone abitava in una caverna a due uscite ed era invulnerabile. Eracle cominciò col tirar contro di esso con l’arco, ma invano. Allora, minacciandolo con la clava, lo costrinse a rientrare nella caverna, di cui ostruì un’uscita. Poi, lo afferrò fra le braccia e lo soffocò. Una volta morto, Eracle lo scorticò e si rivestì con la sua pelle. La testa gli servì come elmo. Teocrito racconta che l’eroe rimase a lungo perplesso davanti a quella pelle che non poteva essere intaccata nè dal ferro nè dal fuoco. Infine, ebbe l’idea di lacerala con gli artigli del mostro e vi riuscì.

L’episodio di Molorco si svolge durante la caccia al leone di Nemea. Molorco era un povero contadino che viveva vicino a Nemea, e il cui figlio era stato ucciso dal leone. Accolse con ospitalità Eracle allorché quest’ultimo si presentò a casa sua mentre andava a caccia del leone. Per onorare il suo ospite, Molorco volle uccidere il solo ariete che possedeva, il suo unico bene. Eracle lo distolse da questo progetto chiedendogli d’aspettare trenta giorni: se, in capo a trenta giorni, non l’avesse visto ritornare, avrebbe potuto considerarlo morto e sacrificare l’ariete alla sua memoria. Ma, se egli fosse ritornato vittorioso prima di trenta giorni, l’ariete sarebbe stato sacrificato a Zeus Salvatore. Ora, il trentesimo giorno Eracle non si era ancora fatto vivo. Molorco lo credette morto, e si sentì in obbligo di sacrificare l’animale, come Eracle gli aveva chiesto. Ma, prima che il sacrificio fosse consumato, vide ritornare Eracle rivestito con la pelle del leone. Offrì allora il suo ariete a Zeus Salvatore e, sul luogo stesso del sacrificio, Eracle fondò giochi in onore di Zeus, i Giochi Nemei, che dovevano, più tardi, essere rinnovati sai Sette che marciavano contro Tebe.

Eracle riportò il leone a Micene, e Euristeo fu così spaventato dalla forza dell’eroe capace di uccidere un tale mostro che gli proibì di penetrare nella città, anzi, gli ordinò di deporre da quel momento in poi il suo bottino davanti alle porte. Il leone, si racconta, fu posto da Zeus fra le costellazioni, per perpetuare l’impresa.

Eracle combatte l’Idra di Lerna

L’idra di Lerna.  Come il leone di Nemea, l’Idra di Lerna è un mostro, figlio di Echidna, ma ha per padre Tifone. Fu allevata da Era per servire di prova ad Eracle. La dea l’allevò, è precisato, sotto un platano, vicino alla fonte Amimone. Questa idra è rappresentata come un serpente a più teste. Il numero di queste ultime varia, da cinque o sei fino a cento, secondo gli autori. Talvolta, queste teste passavano anche per teste umane. L’alito che usciva dalle gole era così mortale che chiunque l’avvicinava, anche mentre essa dormiva, invariabilmente moriva. Essa rapinava anche i raccolti e le mandrie del paese. Per combatterla, Eracle ricorse a frecce infiammate. Si dice altresì ch’egli recise le sue teste con una arpa (specie di sciabola corta). Fu aiutato in questa impresa dal nipote Iolao. Aiuto tanto più necessario in quanto ogni testa tagliata ricresceva. Per impedire alle teste di rispuntare, Eracle chiese a Iolao di appiccare il fuoco alla foresta vicina, e, con l’aiuto dei tizzoni, bruciava ogni volta la ferita, impedendo così alle carni di rinascere. La stesa di mezzo, di diceva, era immortale. Eracle tuttavia la tagliò e la sotterrò; poi vi pose sopra un masso enorme. Infine, immerse le sue frecce nel veleno (o nel sangue) dell’Idra e così le avvelenò. Nella lotta contro Eracle, Era aveva inviato in ausilio dell’idra un gambero gigantesco che morse l’eroe al tallone; ma questi lo schiacciò.

Secondo Apollodoro, Euristeo non acconsentì a contare questa fatica fra le dieci che doveva imporre ad Eracle, poiché era stato aiutato da Iolao. I mitografi hanno presentato un’interpretazione evemerista del mito dell’Idra di Lerna. Dicono che l’idra dalle teste rinascenti è un realtà la palude di Lerna, prosciugata da Eracle. le teste sono le sorgenti che riuscivano sempre a filtrare e rendevano inutili i suoi sforzi.

Un’altra interpretazione sostiene che Lerno era in realtà un re del paese, la cui città si chiamava Idra. Lerno era circondato da cinquanta arcieri. Quando uno di questi cadeva, un altro si metteva subito al suo posto. E ciò avrebbe originato la leggenda delle teste che rinascevano.

Eracle porta a Euristeo il cinghiale di Erimanto. Vaso greco del 550 a.C. ca.)

Il Cinghiale d’Erimanto. La terza fatica imposta da Euristeo fu di riportare vivo un cinghiale mostruoso che viveva sull’Erimanto. Eracle costrinse, con le sue grida, l’animale a uscire dal covo, lo spinse in mezzo a una neve spessa che ricopriva il paese, così lo fece stancare e lo catturò. Lo riportò a Micene sulla spalle. Vedendolo, Euristeo, preso dal terrore, si nascose in una giara che aveva preparato come rifugio in caso di pericolo. Si mostravano a Cuma, in Campania, come ex-voto, le zanne del cinghiale d’Erimanto. Proprio durante questa caccia, Eracle ebbe le sue avventure col centauro Folo.

La Cerva di Cerinea. La quarta fatica imposta da Euristeo fu la cattura d’una cerva che viveva a Enoe. Euripide racconta semplicemente che era un animale gigantesco, che devastava i raccolti. Eracle la uccise, e consacrò le sue corna nel tempio d’Artemide Enoate. Ma questa versione è, non soltanto isolata, ma in contraddizione con la leggenda come la si racconta generalmente. Ha come scopo di cancellare dal ciclo ciò che appariva come un tratto d’empietà dell’eroe.

Eracle e la cerva di Cerinea

Questa cerva, secondo Callimaco, era una delle cinque che Artemide aveva trovato una volta in procinto di pascolare sul monte Liceo. Avevano tutte corda dorate ed erano più grosse dei tori. La dea ne prese quattro, che attaccò alla sua quadriga. La quinta, per ordine di Era, trovò rifugio sul moneti di Cerinea, perché servisse, più tardi, a una delle prove di Eracle. L’animale era consacrato ad Artemide: si dice che portasse al collo un collare con l’iscrizioni: «Taigeta mi ha consacrata ad Artemide». Era dunque un’empietà ucciderla e anche toccarla. Questa cerva era molto veloce. Eracle la inseguì per un anno interno senza raggiungerla. Infine, tuttavia, la cerva si stancò e cercò rifugio sul monto Artemisio. Dato che Eracle la inseguiva sempre, essa volle attraversare il fiume Ladone, in Arcadia. In quel momento, Eracle la ferì leggermente con una freccia. Non ebbe allora alcuna difficoltà a prenderla e a caricarsela sulle spalle. Ma, attraversando l’Arcadia, incontrò Artemide e Apollo; le due divinità vollero riprendergli l’animale che apparteneva loro. L’accusarono inoltre di aver voluto ucciderla, ciò rappresentava un sacrilegio. Eracle si tolse dall’impaccio addossando la responsabilità della faccenda su Euristeo, dimodoché essi finirono col restituirgli la cerva e autorizzarlo a proseguire la sua strada.

Pindaro offre una versione mistica dell’inseguimento. Secondo lui, Eracle inseguì la cerva verso nord, attraverso l’Istria, nel paese degli Iperborei, e fino ai Beati, dove Artemide l’accolse benevolmente.

Eracle contro gli uccelli di Stinfalo

Gli Uccelli del Lago Stinfalo. Gli uccelli che vivevano in una folta foresta sulla sponde del Lago Stinfalo, in Arcadia, erano fuggiti un tempo di fronte a un’invasione di lupi. Si erano moltiplicati in modo straordinario, al punto da costituire una piaga per il paese circostante. Divoravano tutti i frutti nei campi e attaccavano tutti i raccolti. Così Euristeo ordinò ad Eracle di sterminarli. La difficoltà consisteva nel farli uscire dalla loro folta foresta. Per questo, l’eroe ricorse a nacchere di bronzo. che fabbricò lui stesso, ovvero che gli diede Atena e che erano opera di Efesto. Il frastuono di questo strumento spaventò gli uccelli che lasciarono la macchia, ed Eracle li uccise facilmente a frecciate. Altre tradizioni presentano questi uccelli come uccelli predatori che divoravano anche gli uomini. Si diceva inoltre che le loro piume erano d’acciaio, molto affilate, e che essi le lanciavano come frecce sui loro nemici. Un’interpretazione evemerista del mito ne fa le figlie d’un eroe Stinfalo, che Eracle mise a morte perché esse si erano rifiutate di accoglierlo mentre davano ospitalità ai Molionidi, suoi nemici.

Eracle devia il corso dei fiumi Alfeo e Peneo. Mosaico romano del III secolo d.C.

Le Stalle del re Augia. Augia era un re d’Elide, nel Peloponneso. Era figlio del Sole (Elio). Aveva in eredità dal padre numerose mandrie, ma trascurava di far togliere il letame che si accumulava nelle stalle, privando in tal modo il suolo di concime e votando il paese alla sterilità. Per ordine di Euristeo, che voleva umiliare l’eroe imponendogli una fatica servile, Eracle dovette incaricarsi di pulire queste stalle. Ma, prima di farlo, pattuì una ricompensa con Augia: secondo gli uni il re s’impegnava, se Eracle fosse riuscito a fare pulizia in un giorno, a trasmettergli parte del suo regno; secondo altri, gli promise, alla stessa condizione, un decimo delle madrie. Ma Augia non diete la ricompensa pattuita. Giunse fino a bandire Eracle dal regno. Quest’ultimo dovette, più tardi, muovergli guerra. Secondo Apollodoro, Euristeo non volle contare la fatica fra le dieci che doveva imporgli, arguendo che Eracle aveva ottenuto (o almeno chiesto) una ricompensa per pulire quelle stalle, e che, perciò, aveva cessato di essere al suo proprio servizio.

Eracle affronta il toro di Creta

Il Toro di Creta. il toro di Creta è l’animale che, secondo gli uni, aveva rapito Europa per conto di Zeus (nella versione che non ammette la metamorfosi dello stesso dio in toro) e, secondo gli altri, era stato l’amante di Pasifae. Una terza tradizione, infine, ne faceva un toro miracoloso, uscito dal mare, un giorno in cui Minosse aveva promesso di sacrificare a Poseidone ciò che fosse apparso sulle acque. Ma, vedendo la bellezza del toro, Minosse lo spedì fra le proprie mandrie e ne sacrificò un altro, meno prezioso, a Poseidone, il quale si vendicò rendendo l’animale furioso. Euristeo incaricò Eracle di riportagli vivo proprio questo animale (di cui alcuni assicurano che lanciava fuoco dalle narici). Eracle andò dunque a Creta, chiese l’aiuto di Minosse, il quale negò aiuto ma gli diede il permesso di catturare il toro se avesse potuto farlo da solo. Eracle catturò il toro e se ne ritornò in Grecia con esso (forse anche a nuoto, sul dorso della bestia, come al tempo in cui quest’ultima portava Europa). Lo presentò ad Euristeo, il quale volle consacrarlo ad Era. Ma la dea non acconsentì ad accettare un regalo offerto in nome d’Eracle e lasciò andare la bestia, che percorse l’Argolide, attraversò l’Istmo di Corinto e raggiunse l’Attica (Teseo e la leggenda del toro di Maratona).

Hercules and the Mares of Diomedes. Detail of ‘The Twelve Labours’ Roman mosaic from Lliria (Province of Valencia, Spain), at the National Archaeological Museum of Spain (Madrid). 1st half of the 3rd century CE.

Le Giumente di Diomede. Diomede era un re della Tracia che possedeva giumente che nutrivano di carne umana. Erano quattro e si chiamavano Podargo, Lampone, Xanto, Deino. Delle due tradizioni che concernono la leggenda, la più antica è quella secondo la quale Eracle partì da solo per la Tracia, per via di terra, e dette Diomede da mangiare alle giumente di lui stesso, dopodiché, gli animali, calmati, si lasciarono condurre facilmente. L’altra tradizione, più recente, ricollega la leggenda alla fondazione di Abdera.

La Cintura della regina Ippolita. Eracle partì per il regno delle Amazzoni a conquistare la cintura della loro regina Ippolita su richiesta di Admeta, figlia di Euristeo. Questa cintura, ci dicono, era quella dello stesso Ares, che l’aveva data ad Ippolita per simboleggiare il potere ch’ella aveva sul suo popolo. Eracle s’imbarcò, su una sola nave, con alcuni compagni volontari, e giunse, dopo numerose avventure, al porto di Temiscira, che è quello del paese delle Amazzoni.

Eracle affronta un’Amazzone

Qui, Ippolita acconsente ben volentieri a dargli la sua cintura; ma Era, travestita da Amazzone, suscita una disputa fra gli uomini al seguito dell’eroe e le Amazzoni. Ne segue una battaglia campale; Eracle pensa di essere stato tradito e uccide Ippolita. Altre tradizioni raccontano invece che le ostilità iniziarono fin dallo sbarco d’Eracle e dei suoi compagni. Una delle amiche (o sorella) d’Ippolita, Melanippa, fu fatta prigioniera nell’azione,e, per liberarla, Ippolita stipulò una tregua secondo la quale ella avrebbe scambiato la sua cintura con la libertà di Melanippa. Sulla strada del ritorno, Eracle ebbe ancora altre avventure, particolarmente sulla costa troiana.

I Buoi di Gerione.  Gerione, figlio di Crisaore, possedeva immense mandrie di buoi, che il pastore Eurizione custodiva nell’isola d’Eizia. Eurizione aveva come aiuto il cane mostruoso Ortro, nato da Tifone e da Echidna. Non lontano da lì, Menete, il pastore di Ade, faceva pascolare le mandrie di quel dio. L’isola d’Erizia era situata nell’estremo Occidente. Euristeo ordinò ad Eracle di recarvisi per riportarne le mandrie preziose. La difficoltà consisteva innanzi tutto nell’attraversamento dell’Oceano. Per superarla, Eracle prese in prestito la coppa del Sole. Era una grande coppa, sulla quale il sole s’imbarcava, ogni sera, quando aveva raggiunto l’Oceano, per raggiungere il suo palazzo nell’Oriente del mondo. Il Sole, in verità, non gliela diede spontaneamente. Mentre l’eroe attraversava il deserto di Libia, il Sole e il calore violento l’avevano talmente infastidito che aveva minacciato l’astro con le sue frecce. Il Sole gli aveva chiesto di non tirarle, ed Eracle aveva accondisceso a patto ch’egli gli prestasse la sua «coppa» per attraversare l’Oceano fino a Erizia. Il Sole accettò lo scambio. Allo stesso modo, una volta imbarcato sull’Oceano, Eracle dovette minacciare con le frecce il dio Oceano che, per metterlo alla prova, lo scuoteva alquanto violentemente sulle onde. L’Oceano ebbe paura, e la traversata si fece subito tranquilla. Così Eracle giunse ad Erizia. Qui, fu scorto dal cane Ortro, che si scagliò su di lui; ma egli l’uccise con un colpo di clava. Fece altrettanto con pastore Eurizione, il quale accorse ad aiutare il proprio cane. Poi, partì con i buoi. Menete, il pastore d’Ade, testimone della scena, si affrettò ad avvertire Gerione, il quale accorse, raggiunse Eracle sulle sponde del fiume Antemo e l’attaccò. Ben presto fu abbattuto a sua volta dalle frecce dell’eroe. Poi, Eracle imbarcò le sue bestie sulla coppa del Sole, e ripassò sull’altra riva dell’Oceano, a Tartesso.

Eracle contro il cane Ortro

Proprio durante il ritorno d’Eracle in Grecia con la sua mandria avviene la maggior parte delle avventure che gli sono attribuite nell’Occidente mediterraneo. Già si racconta che, durante il viaggio d’andata, aveva liberato la Libia da un gran numero di mostri e che in ricordo del suo passaggio a Tartesso aveva innalzato due colonne, da entrambe le parti dello stretto che separa la Libia dall’Europa, le Colonne d’Ercole (la Rocca di Gibilterra e quella di Ceuta). Sulla strada del ritorno, Eracle fu attaccato da un gran numero di briganti che cercarono di sottrargli la mandria. Partito verso il sud e la costa libica, Eracle rientrò via nord, seguendo le coste spagnole, poi della Gallia, dell’Italia e della Sicilia, prima di passare in Grecia. Questa strada era costellata, infatti, da santuari eraclei, ai quali erano ricollegate leggende locali; esse trovarono posto, bene o male, nell’episodio dei buoi di Gerione.

Eracle fu dapprima attaccato, in Liguria, da un gran numero d’indigeni bellicosi, a tal punto che, dopo averne fatto una gran strage con le sue frecce, gli vennero a mancare le munizioni. La terra era sprovvista di pietre, e Eracle, in mezzo al pericolo, invocò Zeus. Questi fece cadere dal cielo una pioggia di pietre. Subito, Eracle, impadronendosi di quei proiettili, sbaragliò il nemico. Questa impresa è situata nella pianura di Crau fra Marsiglia e la valle del Rodano. Sempre in Liguria, due briganti, figli di Poseidone, Alebione e Dercino, vollero spogliarlo del bottino. Ma egli li uccise. Poi continuò il viaggio attraverso la Tirrenia (l’Etruria). Attraversando il lazio, nel luogo stesso in cui, più tardi, doveva sorgere Roma, dovette battersi ancora contro Caco, per difendere le mandrie e fu ospitato da Evandro. Ma queste leggende si ricollegano all’Ercole latino piuttosto che all’Eracle greco (un prossimo ciclo verrà dedicato al personaggio latino).

A Reggio, in Calabria, uno dei tori scappò e superò a nuoto lo stretto che separava l’Italia dalla Sicilia. Si dice che a questo toro l’Italia deve il suo nome (dalla parola latina uitulus, che significa «il vitello»). Questo toro, scappato in tal modo, giunse nella pianura d’Erice, nel paese degli Elimi. A quell’epoca, il re degli Elimi era Erice, l’eponimo della città. Erice volle impadronirsi del toro fuggito, ma finì con l’essere ucciso da Eracle, mentre Efesto era preposto alla custodia del resto della mandria.

Arrivato sulla riva ellenica del Mar Ionio, la mandria fu attaccata da tafani, inviati da Era, e gli animali divennero furiosi. Si dispersero sui contrafforti delle montagne della Tracia. Eracle li inseguì, ma non poté raggiungerne che una parte. Il resto rimase allo stato selvaggio, e di qui ha origine la storia delle mandrie che erravano nelle pianure della Scizia. Eracle, che era stato disturbato nel suo inseguimento dal fiume Strimone, lo maledì, e riempì il suo corso di massi, dimodoché il fiume, fino ad allora navigabile, diventò un torrente impraticabile.

Infine, al termine nel viaggio, Eracle portò a Euristeo, che li sacrificò a Era, ciò che restava degli animali. Gli autori hanno riportato episodi aberranti di questa leggenda del ritorno di Eracle: Eracle avrebbe preso una via ancora più a settentrione, e avrebbe attraversato i paesi celti, ossia la Gran Bretagna. Queste leggende si sono sviluppate man mano che, in un mondo sempre meglio conosciuto, i viaggiatori e i mercanti ellenici incontravano eroi e dèi locali che essi assimilavano, in un modo o in altro, a Eracle.

Eracle presenza il cane Cerbero ad Euristeo

Il Cane Cerbero. L’undicesima fatica imposta da Euristeo a Eracle fu di recarsi agli Inferi per riportarne il cane Cerbero. Eracle non avrebbe mai potuto riuscirvi, malgrado tutto il suo valore, se non fosse stato aiutato, per ordine di Zeus, dai dei Ermes e Atena. Prima, si fece iniziare ai Misteri eleusini, che, precisamente, insegnavano ai fedeli il modo per poter giungere in tutta sicurezza nell’altro mondo, dopo la morte.

Secondo la tradizione accettata più generalmente, Eracle prese, per scendere agli Inferi, la strada del Tenaro. Ma gli abitanti d’Eraclea del Ponto sostenevano che l’eroe era disceso e riuscito contemporaneamente da una Bocca dell’Inferno situata presso la loro città. Vedendolo arrivare nel loro regno, i Morti ebbero paura d’Eracle e scapparono. Soltanto due rimasero ad aspettarlo: la Gorgone Medusa e l’eroe Meleagro. Eracle lanciò la spada contro Medusa, ma Ermes, che lo guidava, lo avvertì che era solo un’ombra vana. Stava tenendo l’arco contro Meleagro, allorché questi s’avvicinò e gli raccontò la sua fine con parole così commoventi che Eracle fu commosso fino alle lacrime. Gli chiese se gli rimaneva una sorella. Meleagro rispose che Deianira era sempre viva. Eracle promise di sposarla. Più lontano, incontrò Teseo e Pritoo, questi ultimi ben vivi, ma incatenati da Ade perché erano venuti a rapire Persefone. Eracle, con il permesso di Persefone, liberò Teseo; ma Piritoo dovette restare negli Inferi per punizione per la sua audacia. Poi, Eracle liberò Ascalafo che, dal momento della sua colpa, era prigioniero sotto un blocco enorme. Vero è che in seguito Demetra trasformò Ascalafo in civetta, mutando così il suo supplizio.

Per dare sangue ai Morti, che possono, grazie a libagioni cruente, ritrovare un pò di vita, Eracle pensò di uccidere alcuni animali prelevati dalle mandrie d’Ade. Vedendo ciò, il loro pastore Menete volle opporvisi. Ma Eracle lo afferrò per la vita e gli spezzò diverse costole. L’avrebbe ucciso se Persefone non fosse intervenuta in suo favore.

Infine, Eracle giunse davanti ad Ade e gli chiese di portar via Cerbero. Il dio acconsentì, a patto ch’egli avesse domato l’animale senza ricorrere alle armi abituali, rivestito semplicemente della corazza e della pelle di leone. Così l’eroe attaccò Cerbero, gli afferrò il collo fra le mani e, benché la coda del cane, terminante con un dardo simile a quello dello scorpione, gli avesse inflitto varie trafitture, non lasciò la presa prima che Cerbero non fosse domato. Risalì poi con la conquista, passando dalla Bocca dell’Inferno situata a Trezene. Vedendo Cerbero, Euristeo ebbe tanta paura che si nascose in una sua giara, rifugio abituale. Non sapendo esattamente che farsene del cane Cerbero, Eracle lo riportò in seguito al suo padrone, Ade.

Una leggenda d’Olimpia raccontava che Eracle aveva riportato dagli Inferi il pioppo bianco, il solo legno di cui era permesso servirsi durante i sacrifici offerti allo Zeus d’Olimpia.

Esisteva un’interpretazione evemerista della leggenda di Cerbero. Cerbero sarebbe stato, con Ortro, uno dei cani che custodivano le mandrie di Gerione. Eracle aveva ucciso Ortro, ma aveva riportato Cerbero con sé e lo aveva dato a Euristeo. Ma un vicino d’Euristeo, chiamato Molotto, aveva sottratto il cane e lo aveva rinchiuso in una caverna nella montagna, con cagne, perché si riproducesse. Euristeo aveva chiesto allora a Eracle di ritrovargli il cane. Eracle aveva percorso nella ricerca tutto il Peloponneso e, infine, ritrovato Cerbero: lo aveva quindi riportato al suo padrone.

Eracle con i pomi d’oro

I Pomi d’Oro delle Esperidi. Durante il matrimonio d’Era con Zues, la Terra (Gaia) aveva dato come regalo di nozze alla dea alcuni pomi d’oro, che Era aveva trovato tanto belli da farli piantare nel suo giardino, vicino al monte Atlante. E, siccome le figlie d’Atlante aveva l’abitudine di venire a saccheggiare questo giardino, ella aveva posto i pomi e l’albero meraviglioso che li portava sotto la sorveglianza d’un guardiano, un drago immortale, con cento teste, nato da Tifone e da Echidna. Aveva messo a guardia sempre qui tra Ninfe della Sera, le Esperidi, che si chiamavano Egle, Erizia ed Esperaretusa, cioè «la Brillante», «la Rossa» e «l’Aretusa del Tramonto»: i loro nomi ricordano le tinte del cielo allorché il Sole scompare all’Occidente. Euristeo ingiunse a Eracle di portargli proprio quei pomi d’oro.

Il giardino delle Esperidi è situato ora ad ovest della Libia, ora ai piedi del monte Atlante, ora anche presso gli Iperborei. La prima preoccupazione di Eracle fu quella d’informarsi sulla strada che conduceva al paese delle Esperidi. Perciò, partì verso nord, attraversò la Macedonia. Dapprima incontrò per strada Cicno, figlio d’Ares, e lo sconfisse sulle rive dell’Echedoro. Poi raggiunse l’Illiria fino alle rive dell’Eridano, dove incontrò le ninfe del fiume, figlie di Temi e di Zeus, che vivevano in una caverna. Le interrogò ed esse gli rivelarono che soltanto il dio marino Nereo avrebbe potuto informarlo sul paese che egli cercava. Lo portarono alla presenza di Nereo mentre questi dormiva, e, benché il dio assumesse ogni specie di forma, Eracle lo legò saldamente e acconsentì a liberarlo solo quando il dio gli ebbe rivelato dove si trovava il giardino delle Esperidi. Da questo momento, l’itinerario d’Eracle diventa poco comprensibile. Apollodoro racconta che, dalle rive dell’Eridano, l’eroe raggiunse la Libia (cioè l’Africa del nord) dove lottò contro il gigante Anteo; poi percorse l’Egitto, dove rischiò di essere sacrificato da Busiride. Di qui passò in Asia, poi in Arabia, dove uccise Emazione, figlio di Titono, poi attraversò la Libia fino al «Mare Esterno». Ivi s’imbarcò sulla «coppa del Sole» e approdò, sulla riva opposta, ai piedi del Caucaso. Facendo l’ascensione del Caucaso, libera Prometeo, di cui un’aquila divorava il fegato sempre rinascente. Come segno di ringraziamento, il gigante gli insegnò che non doveva raccogliere personalmente i pomi meravigliosi, ma farli raccogliere da Atlante. Eracle continuò il suo viaggio e giunse infine preso gli Iperborei. Andò allora a trovare il gigante Atlante, che sosteneva il Cielo sulle spalle. Gli offrì di alleviarlo del suo fardello se il gigante fosse andato a raccogliere tre pomi d’oro nel giardino delle Esperidi, a due passi da lì. Atlante acconsentì volentieri; ma, quando ritornò, dichiarò ad Eracle che sarebbe andato lui stesso a portare i pomi a Euristeo, mentre Eracle avrebbe continuato a sostenere la volta celeste. L’eroe finse di acconsentire. Chiese soltanto ad Atlante di liberarlo del peso per un istante, il tempo cioè di porsi un cuscino sulle spalle. Fidandosi, Atlante accettò. Ma, una volta libero, Eracle afferrò i pomi, che Atlante aveva posati a terra, e scappò via.

Secondo altre tradizioni, Eracle non ebbe bisogno dell’aiuto d’Atlante; uccise il drago delle Esperidi, oppure lo addormentò, e s’impadronì personalmente dei pomi d’oro. Si racconta anche che, disperate per aver perduto i pomi in loro custodia, le Esperidi furono trasformate in alberi: un olmo, un pioppo e un salice, sotto le ombre dei quali, più tardi, gli Argonauti si riposarono. Il drago fu trasportato in Cielo, dove diventò la costellazione del Serpente.

Comunque siano andate le cose, una volta in possesso dei pomi d’oro, Eracle ritornò fedelmente a portarli ad Euristeo. Ma questi, quando li ebbe, non seppe che farsene e li restituì all’eroe, il quale li diede ad Atena. La dea li riportò nel giardino delle Esperidi, poiché la legge divina proibiva che questi frutti fosse in luoghi diversi dal giardino degli dei.

(Fonte: Dizionario di Mitologia Greca e Romana)


Spero di non avervi annoiato con questo articoli sulle Dodici Fatiche di Eracle, ma era doveroso. Il prossimo appuntamento riguarderà le Spedizioni d’Eracle.

By Simone Riemma

Studente del corso in Civiltà Antiche ed Archeologia: Occidente dell'Università degli Studi di Napoli - Orientale. Sono CEO e founder dei siti: - www.storiaromanaebizantina.it assieme al mio collega dott. Antonio Palo (laurea in archeologia) - www.rekishimonogatari.it assieme alla dott.ssa Maria Rosaria Formisano (laurea magistrale in lingua e letteratura giapponese e coreana) nonché compagna di vita. Gestisco i seguenti siti: - www.ganapoletano.it per conto dell'Associazione culturale no-profit GRUPPO ARCHEOLOGICO NAPOLETANO Le mie passioni: Storia ed Archeologia, Anime e Manga.

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