I fondamenti dell’Islam
Man mano che si diffondeva l’Islamismo, cominciarono a chiarirsi i suoi fondamenti dogmatici e l’insieme delle tradizioni che avrebbero finito per caratterizzarlo nei secoli successivi.
Dal punto di vista musulmano, è improprio, se non addirittura erroneo, sostenere che Maometto fu il fondatore di una nuova religione, dato che egli mai si presentò come tale. Forse Maometto si considerava l’unico restauratore del monoteismo abramide – che era stato in qualche modo alterato dal Giudaismo. Infatti, nell’Islamismo, il figlio di Abramo e della schiava egizia Agar, Ismaele, la sui storia appare nella Genesi (16, 21), ha un ruolo centrale, che è invece svolto da Isacco nella narrazione biblica. Allo stesso tempo, l’adozione da parte di Maometto della circoncisione, citata nella Genesi (17, 12-14), assume un significato di rivendicazione del ruolo del popolo prescelto da Dio e contraddistinto dall’alleanza con Lui, rivendicazione valida per se stesso e per i propri seguaci.
L’essenza dell’imam, la “fede” predicata dal Profeta, è molto semplice. Essa si basa su tre principi fondamentali, che sono l’unicità di Allah, la profezia di Maometto e il mistero degli ultimi giorni, che per i cristiani sono i Novissimi. Tutti coloro che possiedono tale credo ed esercitano il bene e la pietà (birr) saranno uomini dell’Islam, l'”abbandono fiducioso” a Dio e alla sua volontà.
In realtà, le due parole islam e salam (“pace”) derivano da un termine che presenta una stessa radice consonantica, sim, che viene associata alle idee di pace, salvezza e salute. L’Islamismo, quindi, è l'”intima pace dell’uomo con Dio”, il perfetto e sereno adattamento della pace con il desiderio di Esso, che dà pace e sicurezza (in arabo, salam; in ebraico, shalom) al suo portatore. Muslim, “musulmano” è colui che si concede pienamente al Signore: un abbandono così fiducioso si esprime attraverso i cinque pilastri su cui si basa l’islam o arkan ad lin al islami, la cui adesione caratterizza il credente.
Una tale devozione al Signore implica un atteggiamento di intima adesione alla sua volontà (che non deve essere interpretata come puro e semplice fatalismo). In modo simile al fiat voluntas tua del Padrenostro (Matteo 6, 9-13), all’interno della sura (che corrisponde, grossolanamente, a un capitolo) numero 1 del Corano, al Fatiha (“l’apertura”) il versetto 5 così recita: «Te noi adoriamo e a Te chiediamo aiuto». Di solito, il musulmano non chiede grazie materiali: sa che la volontà divina è inflessibile, così come assoluto è il potere di Dio (l’Islamismo non ha il concetto teologico cristiano di “potere ordinato”, secondo il quale Dio si sottomette in piena libertà – a eccezione di concessioni sempre possibili – alle leggi che Egli stesso ha stabilito) e confida nella sua misericordia e compassione.
Ogni sura del Corano e ciascuna azione del buon musulmano si devono aprire con l’invocazione che, per le sue prime parole, si chiama basmala, ossia, “nel nome di Allah”: Bismallah, ar Rahmani, ar Rahim («Nel nome di Allah, il Misericordioso, il Compassionevole»).
LA UMMA
Privo di qualsiasi cosa che possa assomigliare ai sacramenti cristiani, l’Islamismo non dispone di un clero separato dai fedeli, anche se gli sciiti si avvalgono di gerarchie di mullah, dottori in teologia islamica e personaggi noti per la loro cultura e pietas che, in qualche modo, assomigliano al clero. In realtà, gli imam conducono le preghiere, gli ulemi sono gli interpreti del Corano e della Legge islamica, i mufti consigliano i fedeli e i cadì sono incaricati di giudicare e di far rispettare la legislazione. Ma non esistono sacerdoti. Da qui, il doppio carattere dell’Islamismo che, da una prospettiva cristiana, appare paradossale se non contraddittorio: il rigore estremo secondo la parola della Legge islamica, e la flessibilità nella pratica. La stessa suddivisione della umma islamica (“comunità”, dall’arabo umm, “madre”) in scuole e “confessioni”, oltre alle numerose e misteriose confraternite mistiche, induce a pensare che forse non si dovrebbe parlare di un solo Islam, ma di vari Islam.
La umma musulmana, che nel corso del tempo si è contraddistinta in varie firaq (al singolare firqa) o sette, in particolare il sunnismo, sciismo e kharigismo, concepisce come unitarie e indivisibili le tre dimensioni del din, daula e dunia (religione, potere e mondo) e non prevede forme di peccato – ossia di offesa a Dio – che non siano strettamente personali (in questo modo, non riconosce il “peccato originale” e le sue diverse conseguenze) e che non possano essere espiate su questa terra (è infatti estranea al concetto di castigo eterno). Si presenta, inoltre, come comunità che accoglie un insieme di fedeli che vivono in un territorio considerato come dar al islam, “terra dell’Islam”,
In teoria, la guerra, la harb, è possibile soltanto lì dove non esiste l’Islam, né domina la sharìa, la “legge rivelata”, cioè nel dar al harb. Tuttavia, quei non musulmani che sono monoteisti e credono nel vero Dio che si è rivelato loro attraverso la Sacra Scrittura, ossia, gli ebrei e i cristiani – anche se in tempi e luoghi diversi, sono stati considerati tali anche i mandei, i mazdei o zoroastri e i buddisti – sono ahl al Kitab, “gente del Libro” e possono abitare la dar al islam nella misura in cui appartengano a una mila (gruppo differenziato) che li rende dimmi (cioè sottomessi all’Islamismo e pertanto oggetto di alcune restrizioni, ma anche protezioni). Non viene invece ammesso il kafir, il “pagano”, il “politeista” (al plurale, kafirun). Contro i kafirun, il massimo sacrificio del credente, la jihad, diventa guerra giusta e pia (anche se bisogna evitare l’espressione di “guerra santa”) che porta alla loro distruzione o conversione. Un tale impegno, però, è da considerarsi parte della daua, il dovere individuale e collettivo del proselitismo.
IL CORANO: IL LIBRO SACRO
Fonte primaria dell’Islamismo, in cui teologia e diritto coincidono, il Corano (al Quran: letteralmente, “la declamazione”) è parola dettata direttamente da Dio ed è quindi Sua espressione immediata e innata. Il Profeta non collaborò in alcun modo alla stesura di questo libro sacro e immutabile, ma, in qualità di “inviato”, si rese soltanto responsabile della diffusione dei suoi contenuti tra gli uomini. Il Corano è per i musulmani ciò che per i cristiani è Gesù Cristo, il Verbum Dei, la Parola di Dio. Le altre Scritture Sacre d’origine divina (chiamate semplicemente Kitab, “Libro”), come la Bibbia ebraica e i Vangeli cristiani, non sono ignorate dall’Islam. Sebbene ispirate da Dio, sono tuttavia considerate contaminate dalla malizia o dall’errore degli uomini. Dato che il Corano è al di fuori del principio della corruzione umana, è considerato immutabile. Così, fin verso il secolo X circa si ammise la possibilità della sua esegesi, che però fu in seguito sostituita da forme interpretative basate sulla parafrasi o sull’ermeneutica simbolica. Ancora oggi, tra i musulmani continua a essere controversa la questione di una filologia coranica paragonabile alla filologia biblica.
La parola del Corano andò diffondendosi oralmente attraverso le predicazioni del Profeta e venne in seguito trascritta; il califfo Othman poi, morto nel 656, dichiarò la immutabilità del suo testo, e sancì che la stesura del libro sacro, che si identificava con la Parola di Dio trasmessa al Profeta sul monte Hira, fosse l’unico Corano autentico. Consiste in 114 sure o as-suras che, dalla II in avanti, sono di lunghezza progressivamente minore, e vanno dai 286 ayat (“segni”, “prodigi”), ovvero versetti, della II, al Baqara, “la Giovenca”, ai 6 della CXIV, an Nas, “Gli uomini”.
LA TRADIZIONE
Per gli sciiti e i kharigiti, il corpus di scritture musulmane termina con il Corano. Senza dubbio esiste, però, anche una sunna o tradizione costituita da un altro tipo di scritture, che sono importanti sia a livello teologico che a livello giuridico, due spetti che nel mondo musulmano coincidono. Tale tradizione è accettata dalla maggior parte di quei musulmani che vengono, per l’appunto, chiamati sunniti.
Tra queste scritture ha particolare importanza la sira, la “vita” del profeta Maometto, una biografia redatta tra i secolo VIII e IX da vari autori, che ricorsero ovviamente a fonti orali. In modo analogo, vennero comprese le raccolte di dichiarazioni di Maometto, che furono trasmesse per mezzo dei cosiddetti hadith, legittimati da testimoni considerati affidabili. D’altra parte, non bisogna dimenticarsi dell’iyma, il consenso dei giuristi della Legge tradizionale in quanto rappresentanti della comunità. Per ultimo, rimane il qiyas, il “ragionamento analogico”. Tuttavia, bisogna sottolineare che le varie confessioni e le numerose scuole giuridiche presenti nell’Islam attribuiscono un valore variabile alle diverse fonti del Corano.
L’Islamismo, religione “per legge” (a differenza del Cristianesimo, che è una religione dogmatico-teologica), si basa sulle azioni e i comportamenti, più che sui principi intimi della fede. Non si richiede ai credenti un'”ortodossia”, bensì una “ortoprassi”. La disciplina legale è ciò che si considera fondamentale; essa trova espressione nella sharia, che regola le azioni esterne, mentre le intenzioni e le scelte interiori possono essere giudicate soltanto da Allah. Inoltre, visto che la stesura del Corano è immutabile e intoccabile e che la sua elaborazione testuale, che di fatto c’è stata, terminò ben presto (per i sunniti, che sono i più indulgenti riguardo questa questione, fu nel X secolo), l’aspetto che in realtà regolamenta la vita delle comunità musulmane e le scelte personali è la fiqh, la giurisprudenza islamica. In altre parole, per tradurre il messaggio divino in legge, e quest’ultima in pratica di vita, è necessaria un’operazione esegetico-ermeneutica. Non si può neanche dimenticare che, insieme alla legge divina che costituisce la base del diritto consuetudinario e privato, i vari regimi musulmani hanno anche sviluppato un kanun, una legge civile pensata per le diverse esigenze mutevoli della vita comunitaria della società in evoluzione.
Il kanun si sviluppò in modo particolare durante l’impero ottomano. Nel secolo XV, il sultano Maometto II fu il primo a codificarne i decreti in un kanuname (codice di leggi), e nel XVI secolo, Solimano I – “Il Magnifico” per l’Occidente – fu soprannominato Kanuni per il suo operato in tema legislativo.
GLI ARKAN DELL’ISLAM
Tra i simboli più comuni dell’Islamismo c’è un popolare talismano-amuleto a forma di mano stilizzata, noto con il nome di “mano di Fatima”. Si tratta, in realtà, della jamsa, termine arabo che significa “cinque” e che rimanda ai cinque precetti fondamentali dell’Islamismo, i “pilastri” (in arabo, arkan) che ogni musulmano deve osservare. Anche se appaiono molto semplici, tali precetti costituiscono le basi della ortoprassi musulmana.
Il primo pilastro è la shahada, la “testimonianza”, ovvero, la professione di fede. Si tratta di una formula che contemporaneamente è testimonianza, confessione e preghiera: La ilaha illa Ilahum wa Mohamed rasulu Ilah («Non ci sono altre divinità oltre ad Allah e Maometto è l’inviato di Allah»).
Il secondo pilastro è la salat, la preghiera rituale che va recitata cinque volte al giorno, all’alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio, al tramonto e di notte, nei momenti annunciati dall’adhan (la chiamata alla preghiera) e secondo una successione precisa di gesti da realizzare e di formule da recitare con il conto orientato verso la Kaaba.
Un altro pilastro è l’havy, il pellegrinaggio a La Mecca, cioè la visita (umra) ai luoghi sacri de La Mecca (considerati haram, “spazi sacri”) che, come principio, il buon musulmano deve compiere almeno una volta nella vita, in mesi appositamente consacrati e secondo un rituale regolamentato dettagliatamente.
Un altro precetto che i musulmani devono rispettare è il saum, il digiuno, che si segue nel nono mese dell’anno lunare, il ramadan, mese in cui fu rivelato il Corano. Durante questo mese è vietato consumare alimenti e bevande, così come avere rapporti sessuali, dall’alba fino al tramonto.
Infine, la zaqat, la “purificazione” o “elemosina legale”, fu in origine un contributo sui beni superflui che ciascuno possedeva, ed era destinata a coprire le spese della comunità e le necessità dei poveri o, comunque, degli indigenti e bisognosi: i deboli, gli insolventi, i viaggiatori con qualche difficoltà, i coinvolti nella jihad e quelli incaricati di raccogliere la stessa elemosina. La zaqat, a cui sono obbligati tutti i musulmani benestanti, in maniera proporzionale alle proprie possibilità, non va confusa con la sadaqa, l’elemosina volontaria, la cui distribuzione viene regolata da norme e garantita da persone qualificate, incaricate della sua raccolta. A coloro che non sono musulmani, ma che vivono nella dar al islam, le “genti del Libro” (ahl al Kitab) non viene richiesta la zaqat, ma devono rispondere, in quanto dimmi, a due tipi di tributo (yizya e jaray) che risultano abbastanza gravosi. Lo status di dimmi si applica va in origine soltanto alla ahl al Kitabi, sia che si trattasse di credenti ebrei, cristiani o sabei (riguardo a questi ultimi si sa ben poco, ma la loro fede fu esplicitamente inclusa nel Corano tra le religioni del monoteismo abramide), ma ben presto si estese anche agli zoroastri, agli induisti, ai sikh, ai buddisti, e ad altri ancora. Secondo alcuni studiosi, le imposte applicate ai dimmi erano una delle principali ragioni delle numerose conversioni all’Islamismo; altri, invece, sostengono che l’ammontare di queste tasse in molte regioni non era superiore al ricavato della zaqat. Daltra parte, i dimmi avevano diritto di rispondere davanti ai propri tribunali, anche se di fatto,
in molti casi, sceglievano liberamente di essere giudicati dai tribunali musulmani.
LA JIHAD
Ai cinque pilastri bisogna aggiungerne, secondo alcuni, un senso, che in determinati momenti può trasformarsi in qualcosa di fondamentale: la jihad, lo “sforzo”, tradotto letteralmente, ma in maniera erronea, con l’espressione ambigua di “guerra santa”. La jihad è in realtà un impegno particolare, per importanza e intensità a cui ci si appella ogni qualvolta la umma, la comunità musulmana, si trova in qualche situazione conflittuale che ne minaccia l’esistenza, la libertà o la sicurezza. La parola deriva da una radice semitica, ghd, che indica l’atto di applicarsi con zelo per raggiungere un obiettivo.
Tradotto in modo più appropriato come “sforzo sul sentiero di Allah” (yihad fi sabil Alà) implica l’impegno verso tutti quegli obiettivi che sono graditi ad Allah. La jihad, però, è oggetto di numerosi equivoci tra chi non professa l’Islamismo. In realtà, per spiegare bene la sua natura è molto utile rifarsi a un hadith in cui il Profeta si rivolge ad alcuni compagni che ritornano da una battaglia vittoriosa e li esorta, ora che hanno ottenuto il successo nella “piccola jihad” contro il nemico esterno, a impegnarsi nella “grande jihad“, la lotta interiore dell’anima contro se stessa.
Il senso profondo della jihad è lo stesso che ha, nella tradizione mistico-ascetica del Cristianesimo, la pugna spiritualis: la lotta contro il nemico interiore, il peccato, le debolezze e le contraddizioni di ognuno di noi. La parola jihad non presenta alcuna affinità con il termine harb, “guerra”, né con quital, “combattimento”.
FESTE E TRADIZIONI
A differenza di quella ebraica, la vita liturgica musulmana è molto semplice. In effetti, l’assenza, in entrambi i casi, di un clero separato dai credenti e di una vita sacramentale favorisce tale semplicità. La festa più importante per l’Islam è quella dell’iftar, ovvero l’interruzione del digiuno al termine del Ramadan. Tuttavia, a eccezione del Ramadan, che al di fuori dell’Islam viene percepito come un mese di penitenza quando in realtà è caratterizzato piuttosto da notte di festa, esistono anche altre occasioni solenni, che, senza dubbio, si celebrano in maniera molto semplice.
Il sacrificio cruento, retaggio dei sacrifici animali che erano frequenti sia nell’Ebraismo precedente la distruzione del tempio, sia nel mondo arabo della yahiliya, consiste nel sacrificio di un agnello o di un montone, lo Aid al Adha o Aid al Kabir, la “grande festa” che si celebra alla fine del pellegrinaggio. L’offerta di un montone o di un agnello è frequente in certi santuari: come nel caso di quello cristiano della Vergine di Saidnaya, in Siria, venerata con devozione dai musulmani, che sono soliti offrirle animali che vengono poi consumati in pasti collettivi in cui la beneficenza riveste un ruolo fondamentale.
Esistono, d’altra parte, riti relativi all’hayy, il pellegrinaggio, tra cui si ricorda la processione intorno alla Kaaba (tauaf). I pellegrini devono indossare un indumento bianco, composto da due pezzi di tela senza cuciture, e devono astenersi da qualsiasi azione violenta, oltre che dalle pratiche sessuali. Durante il pellegrinaggio, vige anche un regime di astensione dal cibo, più rigoroso delle abituali indicazioni musulmane di nutrirsi soltanto con alimenti halal, cioè permessi (ai musulmani è infatti proibito mangiare carne di maiale o di altri animali che non siano stati uccisi in maniera rituale, ossia con l’eliminazione totale del sangue).