[Immagine di copertina: mosaico Vestibolo del Piccolo Circo, Villa Armerina.]
Le età. Che la vita dell’uomo si suddividesse in distinte età, ognuna individuata e identificabile, era credenza diffusa nella mentalità antica. In ambiente filosofico i pitagorici distinguevano quattro età, mentre gli scrittori medici ippocratici ne distinguevano sette, ognuna di sette anni. Ma, dal momento che l’ordine della società adulta era sostanzialmente basato su un criterio bi-generazionale, di fatto la suddivisione più corrente era quella, tripartita, tra puer (il bambino, non ancora utile alla società), iuvenis (il giovane, che entra nella società e vi collabora attivamente), senex (il vecchio, che perde il ruolo attivo, ma può acquisire quello di “saggio” e “consigliere”). Le capacità individuali venivano direttamente collegate al passare degli anni, come mostra che precisi limiti di età erano stabiliti per i ruoli di governo e amministrativi. Ad Atene, per esempio, la carica di consigliere era accessibile soltanto a chi aveva compiuto 30 anni, mentre a Roma la successione delle cariche era regolamentata dal cursus honorum.
Età e analisi demografica. Non è facile stabilire, sulla base delle testimonianze in nostro possesso (di ordine soprattutto epigrafico e archeologico), dati precisi riguardo alle età della popolazione romana. Si può a ogni modo osservare che la mortalità infantile era assai elevata e che l’età media raggiunta da una donna era di 34 anni, mentre quella degli uomini sui 46 (la differenza va attribuita presumibilmente alla debilitazione e ai pericoli del parto: anche per questa ragione nei ceti aristocratici romani si osserva una tendenza a matrimoni tra ragazze adolescenti e giovani uomini di almeno 10 anni più grandi, sebbene l’età legale per il matrimonio fosse di 12 anni per i maschi e di 14 anni per le femmine). Probabilmente, meno dell’1% della popolazione raggiungeva gli 80 anni. Sembra, inoltre, che molti greci e romani avessero un’idea abbastanza approssimata della loro età, come è indicato dalla sigla P(lus) M(inus), “più o meno”, che si incontra frequentemente sulle epigrafi sepolcrali (sebbene le epigrafi romane siano molto più accurate rispetto a quelle greche nella registrazione dell’età del defunto).
I riti di passaggio. Il momento che segnava il confine tra un’età e un’altra, soprattutto tra l’età infantile e quella adulta, era caratterizzato dal “rito di passaggio” (denominazione Van Gennep). Questi particolari riti erano caratterizzati da una drammatizzazione del passaggio dal vecchio stato al nuovo, attraverso una fase intermedia di ambiguità. I più importanti erano quelli collegati alla nascita, all’iniziazione, alla pubertà, al matrimonio, alla morte: rispetto a quella greca, dovettero essere aboliti piuttosto presto i riti di iniziazione, di cui restarono soltanto alcune tracce. Simboli importanti del rito di passaggio erano il bagno, la purificazione, il cambio di abiti e di acconciatura di capelli, l’uso di corone: i singoli oggetti non hanno un valore simbolico assoluto, ma traggono il loro significato soltanto dalla reciproca combinazione.
La nascita. Il primo tra i riti di passaggio era naturalmente quello della nascita, momento di alto valore simbolico e drammaticamente delicato (la mortalità tra le madri, secondo le stime più pessimistiche, era di 25 su 1000). Dopo la purificazione, necessario perché il parto era considerato contaminante, dato l’effondersi di liquidi organici, il neonato veniva ufficialmente riconosciuto e accettato nella comunità grazie all’atto del padre, che lo sollevava da terra (tollere liberum; nel rito greco il padre lo portava in braccio girando attorno al focolare, la amphidromía). Ulteriore e definitivo rito purificatorio, a Roma, era la lustratio, che si teneva l’ottavo o il nono giorno successivo al parto. Non si avevano successivi riti di integrazione nella società fino al raggiungimento dell’età adulta. Per effetto della loro purezza rituale, i fanciulli potevano svolgere un ruolo significativo nella pratica religiosa, partecipando ai culti o cantando nei cori: particolarmente rilevante il ruolo del puer patrimus et matrimus, i cui genitori fossero entrambi in vita, e che quindi non era contaminato dal contatto con la morte. Sulla vita infantile siamo piuttosto informati, oltre che dalle fonti letterarie (non trascurabile, in proposito, l’apporto dei poeti satirici), dai ritrovamenti archeologici, che ci hanno restituito, attraverso le numerose tombe di fanciulli e fanciulle, un considerevole numero di giochi e amuleti (spesso i due aspetti si confondevano). Anche nell’arte figurativa di età imperiale, forse per l’impulso dato da Augusto alla politica delle nascite e della famiglia, i temi dell’infanzia trovano ampio spazio: basti soltanto pensare ai rilievi dell’Ara Pacis e alla ritrattistica dei giovani principi imperiali. L’infanzia si concludeva per i maschi attorno ai 16 anni, quando indossavano la normale toga di colore bianco, e abbandonavano la toga praetexta, con i suoi bordi di porpora. Per le femmine il momento decisivo di passaggio all’età adulta (e quindi alla riproduzione) era il matrimonio.
Gli oggetti votivi. Al momento del passaggio si stato, era uso che gli oggetti identificanti dell’età e del ruolo vecchi fossero offerti in voto. L’offerta votiva, per il fatto di non essere “distruttiva” (come il sacrificio), presupponeva la conservazione e quindi la memoria del rito. Al momento di lasciare la fanciullezza, ragazzi e ragazze potevano offrire in voto un ricciolo dei capelli, i loro giochi infantili, o anche, nel caso dei fanciulli aristocratici, la bulla che li identificava. Nella pratica dell’offerta votiva, scrupolosamente regolamentata in coincidenza con la comune mentalità giuridica romana, si fa evidente quel rapporto utilitaristico tra l’uomo antico e la divinità: anche nel passaggio di età, l’offerta votiva rappresentava la riconoscenza dell’offerente (e anche la sua dovuta ricompensa) per la felice prosecuzione dell’esistenza.