Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162 a.C., veniva da una famiglia importante: la madre Cornelia era infatti figlia del grande Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale. Si raccontava che, durante un viaggio da Roma verso Numantia, egli fosse rimasto colpito dallo spopolamento delle campagne, immense distese di terra coltivate solo da masse di schiavi alla catena o abbandonate al pascolo. Tiberio così avrebbe concepito un progetto di riforma che mirava a due obbiettivi strettamente connessi tra loro: ricostruire il ceto dei piccoli proprietari terrieri, che era stato decimato progressivamente nel secolo precedente con le guerre di conquista, e garantire una base minima di reclutamento nell’esercito, composto in maggior parte proprio da piccoli proprietari terrieri.
Per il raggiungimento degli obbiettivi Tiberio aveva previsto la redistribuzione dell’ager publicus, ossia le terre di proprietà dello Stato che di fatto erano gestite quasi come un bene personale dai grandi proprietari terrieri che le avevano in concessione. Nel 133 a.C. Tiberio Gracco viene eletto tribuno della plebe e sin da subito avanzò la proposta di imporre un limite massimo all’estensione dei lotti che venivano affidati ai privati cittadini: il limite proposto era di 500 iugeri (125 ettari) che potevano raddoppiare in presenza di figli. Il nuovo conteggio degli appezzamenti avrebbe così ridotto nella norma quelli oltre i 250 ettari, e le terre rimanenti sarebbero state ripartite in piccoli appezzamenti di 7 ettari e ridistribuiti a nullatenenti. Un nullatenente, però, non poteva permettersi di avviare un qualsiasi produzione agricola senza strumenti agricoli adatti, e Tiberio propose di finanziare direttamente la riforma con i beni lasciati in eredità a Roma, nello stesso anno, dal regno ellenistico di Pergamo in Asia Minore. Gli espropri e la delimitazione sarebbe stata a cura di una commissione speciale, che prevedeva anche la presenza dello stesso Tiberio.
La riforma, se poteva essere vista con buon occhio dai ceti meno abbienti, fu osteggiata invece dall’aristocrazia, che era composta proprio da grandi latifondisti che si vedevano limitare i propri interessi economici. La “soluzione” (se così la si può chiamare) fu abbastanza semplice: la corruzione. Poiché i tribuni della plebe dovevano prendere le decisioni all’unanimità, bastava un solo parere discorde per bloccare il percorso della legge. L’anello debole della catena fu il tribuno Ottavio, che passò dalla parte dell’aristocrazia. La reazione di Tiberio fu altrettanto immediata, e fece dichiarare decaduto il tribuno corrotto con l’accusa di aver tradito gli interessi della plebe per il quale era stato eletto con il dovere di rappresentare.
Il percorso della legge, tolto di mezzo il problema di Ottavio, dovette fare conti con il tempo e la legge vigente: per portare a termine la riforma, nell’anno 132 a.C., si rese necessaria la riconferma di Tiberio, che però non poteva essere rieletto per anni consecutivi nella medesima magistratura. Il tentativo di Tiberio di essere riconfermato diede modo però a chi lo osteggiava di poter scatenare una violenta campagna di propaganda nei suoi confronti, con le accuse di volersi creare un potere personale diventare tiranno. Essendo screditato anche dall’opinione pubblica, a Tiberio non bastò l’immunità (e inviolabilità della persona) che la carica di tribuno gli aveva conferito: in occasione delle elezioni per il tribunato, Tiberio fu attaccato da una banda armata composta da senatori guidati da Scipione Nasica, cugino di Tiberio e pontefice massimo, e ucciso insieme a centinaia di suoi seguaci.
La legge agraria, ora che veniva a mancare il suo ideatore e i suoi sostenitori (grazie al clima di terrore instaurato), non venne neanche abolita: fu semplicemente ignorata. La vicenda di Tiberio Gracco ad ogni modo segnò un momento decisivo per le sorti della Repubblica romana: oltre ad essere il primo omicidio politico della storia di Roma (il primo di una lunga serie), spaccò la classe dirigente romana tra ottimati e popolari.
[fine parte 1/2]