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Storia e tecniche di lavorazione del vetro dai Fenici ai Romani

Quando si studia il passato, si tende a identificare singoli personaggi o determinati popoli come autori di scoperte o invenzioni. Una sorte di questo tipo è toccata al vetro: materiale prezioso nell’antichità, in un certo senso misterioso, le cui origini sono sempre state collegate in un intreccio tra storia e leggenda ai Fenici. Oggi sappiamo che l’invenzione del vetro non si deve ai Fenici. Però, c’è da dire, che a partire dal VII secolo a.C. fiorirono nelle città fenice un gran numero di botteghe artigiane del vetro, anche perché la sabbia delle coste della Fenicia si mostrò particolarmente adatta al processo di vetrificazione grazie alla sua particolare composizione chimica.

La tecnologia del vetro si sviluppò dopo la smaltatura (o invetriatura) della ceramica, un procedimento noto fin dal III millennio a.C. nel Vicino Oriente. Nel II millennio, gli Egiziani avevano già elaborato una loro tecnica produttiva e individuato le sostanze (silice, carbonato di calcio, alcali di sodio e di potassio, ecc.) che, fuse insieme nello stesso momento, davano origine alla pasta vitrea. In origine il vetro non era però trasparente. Il perché lo si ricava dall'”arretratezza tecnologica” dell’epoca, che non conosceva forni in grado di raggiungere temperature abbastanza elevate da permetterne questo processo. Il colore naturale del vetro era azzurro o azzurro tendente al verdastro; per ottenere le altre colorazioni bastava aggiungere ossidi di metalli: ad esempio, l’ossido di rame faceva ottenere un blu intenso, mentre l’ossido di ferro, a seconda della percentuale variabile, otteneva un vetro tendente al verde o al giallo.

Coppa vitrea azzurra di produzione fenicia, tomba Bernardini di Preneste, VII secolo a.C.

Tra le prime tecniche di produzione la più diffusa era la “tecnica su nucleo” (o “formatura su anima”): si rivestiva con uno strato di argilla un’anima di legno, poi la si immergeva, fissata all’estremità di un’asta, in un crogiolo di vetro riscaldato per permettere alla pasta di ricoprire la sua intera superficie; una volta estratto, lo strato di vetro veniva levigato o con l’utilizzo di utensili e/o supporti in ardesia o fatto ruotare su una lastra liscia di metallo o di pietra. In questo modo potevano essere fabbricato oggetti cavi che potevano essere decorati con filamenti vitrei di varie colorazioni (quando la superficie era ancora riscaldata). Per permetterne l’incavo bastava semplicemente lasciare scoperta almeno una delle sue estremità in argilla, così da rendere possibile il raschiamento una volta raffreddatosi il vetro.

Pendenti fenicio-cartaginesi con teste maschili barbute, IV-III secolo a.C.

I primi manufatti in vetro erano per lo più oggetti ornamentali come collane o orecchini (in questo caso il vetro sostituiva le pietre preziose) e per piccoli contenitori per unguenti e profumi. In quest’ultimo caso, il manufatto veniva volutamente deformato con una pinza modellandone bocca, anse, beccucci e piede. Un grandissimo numero di questi oggetti – che seguono forme e modelli greci – ci è giunto direttamente dalle principali città della Fenicia, e sono databili dalla metà del VI al I secolo a.C.. Tra i vari ornamenti vi erano anche pendenti figurati, ciondoli da portare al collo, orecchie o cintura, che avevano forme particolari: riproducevano per esempio teste di demoni, teste umane (sia maschili che femminili) o figure animali o simboli di divinità. I manufatti vitrei dalla Fenicia ebbero grande diffusione – a livello artigianale – anche in quei centri sparsi nel Mediterraneo, come Cartagine, Sicilia, Sardegna, Iberia, isole Baleari, che furono toccati dalla cultura fenicia e dall’espansione commerciale.

Frutta in un vaso di vetro, particolare dell’affresco della casa di Giulia Felice a Pompei.

La tradizione artigianale fenicia trovò poi dei continuatori, se non addirittura degli innovatori, in epoca romana. I Romani occupano infatti un ruolo di primo piano nella storia del vetro, che per moltissimo tempo non ebbero rivali nelle tecniche di lavorazione. Durante l’epoca imperiale romana ci fu infatti la più importante innovazione tecnica, quella della soffiatura del vetro: l’artigiano-vetraio utilizzava una sottile canna di ferro lunga e cava con la quale prelevava dal forno di fusione una palla di pasta vitrea, che veniva contemporaneamente surriscaldata e vi veniva soffiato al suo interno, creando una sorta di bolla vetrosa. Per rendere possibile la soffiatura la temperatura di fusione doveva essere più alta e non limitarsi alla semplice incandescenza, portando la pasta vitrea allo stato liquido. I Romani utilizzarono moltissimo questa tecnica e realizzarono una produzione così varia che il vetro seppe a suo modo contrastare la posizione preminente della ceramica. La soffiatura permetteva di ottenere oggetti di vetro più sottili, leggeri e trasparenti.

Dioniso e Arianna, lastra romana in vetro-cammeo, vetro bianco su sfondo in vetro blu-viola, I secolo d.C.

Già in epoca romana la produzione del vetro ebbe un’ampia diffusione nella zona del Veneto. In particolar modo la città di Aquileia e le zone del delta del Po ci hanno restituito numerose testimonianze di artigianato del vetro e non è un caso se oggi – ad esempio andando a Murano – possiamo ancora assistere a lavorazioni artigianali del vetro con la tecnica della soffiatura: si tratta dell’eredità di una tradizione plurisecolare che nel tempo ha avuto modo di affinarsi e arricchirsi.

Piatto degli Sposi protetti da Ercole (figurina al centro), IV secolo d.C.

Il vetro rimase un materiale costoso per tutta l’epoca romana, una ricchezza incrementata anche dopo la caduta dell’Impero romano, in un’epoca che vide limitare notevolmente la produzione. Una ripresa dei manufatti vitrei su grande scala si avrà nel XII secolo, quando comparirono le vetrate nelle chiese gotiche. Dal XVI-XVII secolo poi, diverrà anche materiale di utilizzo pratico nonché di conoscenza per specchi, vetri ottici e lenti. [X]

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