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I Fenici / Rotte, empori e merci nel Mediterraneo

In tutto il mondo antico fu ben nota la grande abilità dei marinai fenici. Prendere il mare non era certo cosa priva di rischi: non si aveva conoscenza certa delle terre a cui si andava incontro, almeno all’inizio, e non c’erano carte di riferimento. Navigare era pericoloso per l’imprevedibilità del tempo, talvolta anche per la difficoltà degli approdi. Il mondo greco espresse in molti modi questa realtà, attraverso opere in poesia e prosa; non sappiamo se anche i Fenici l’abbiano fatto, dal momento che non ci è giunta la loro letteratura.

Con un’abilità tecnica a quel tempo davvero unica, i Fenici misero a punto le migliori navi del tempo, a cominciare dal materiale, il cedro delle montagne libanesi, che essi utilizzavano. Sembra che fossero costruite a partire da pezzi preparati in precedenza e poi assemblati al momento e nel luogo in cui la nave poteva servire; sui bordi di ogni lista lignea era infatti segnata una lettera che rispondeva a uno schema a cui i carpentieri sapevano rifarsi. Le imbarcazioni erano di due tipi, uno per il piccolo cabotaggio, ovvero per la navigazione costiera, l’altro, dallo scafo più profondo e stabile, per le navigazioni di lungo corso. Con le prime si navigava solo nelle ore diurne, percorrendo fino a 25-30 miglia nautiche, con le seconde si arrivava a 50 miglia e si navigava anche di notte, perché i Fenici impararono a orientarsi sul mare usando le stelle: la stella polare, il nord cardinale, si chiamò infatti a lungo “stella fenicia”.

Studiando il percorso delle correnti mediterranee e le direzioni dei venti, i Fenici misero a punto due grandi rotte, una per l’andata da est a ovest e una per il ritorno. Da Tiro allo stretto di Gibilterra occorrevano circa 80 giorni: si cominciava dalle vicine isole di Cipro e Rodi, si attraversava lo Ionio per arrivare alla Sicilia, di qui si toccava la Sardegna meridionale, le Baleari, la costa spagnola e infine lo stretto. Il ritorno avveniva invece costeggiando l’Africa.

La fama dei viaggi per mare dei Fenici fu tale da essere citata da Erodoto: questi scrisse che i Fenici erano riusciti, nel VII secolo a.C., a circumnavigare l’Africa in tre anni di viaggio. Di questa notizia non vi alcuna conferma, mentre più attendibilità (se non quasi la certezza) si ha nell’affermare quanto riguarda l’apertura di una rotta oltre Gibilterra verso il sud, al golfo di Guinea, (pare raggiunto dal cartaginese Annone nel V secolo a.C.) e di una verso il nord alle isole Cassiteridi (Irlanda e Gran Bretagna), per opera ancora di un cartaginese, Imilchione. Sulla costa atlantica dell’Africa vi sono infatti resti di fondazioni fenice e nel nord Europa si sa che essi acquistavano lo stagno.

Se è affascinante collocare in un tempo così lontano viaggi di simile portata, è anche lecito chiedersi che cosa spingesse tanto lontano questo popolo. La risposta sta, da quanto indicano i dati in possesso ad oggi, nella dimensione pratica del commercio, nella rete di scambio tra merci diverse, tanto materie prime quanto manufatti, che a mano a mano si erano rese utili alla vita dei popoli. I Fenici non raggiunsero mai terre per conquistarne il territorio, ma solo per costruire basi d’appoggio per il commercio, o poco di più, lungo le loro rotte.

Vediamo ora due aspetti da approfondire sull’espansione fenicia: come avvenne e quale fu il contenuto degli scambi.

Come è prevedibile, i Fenici cercarono luoghi simili a quelli che avevano lasciato per collocare le loro basi commerciali: isolette di fronte alla costa, promontori, piccole penisole, golfi, foci di fiumi. Gli insediamenti erano piccoli, anche se talvolta si ingrandirono col tempo, e molto ravvicinati gli uni agli altri. Il nucleo originario era un santuario: nel mondo antico era normale porre una nuova fondazione sotto la protezione di un dio. Il tempio custodiva le ricchezze guadagnate e costituiva un luogo di incontro ideale per gli scambi commerciali; è possibile che i magazzini di stoccaggio facessero parte del tempio stesso. Oltre al santuario, naturalmente, c’era il porto, non monumentale, ma costituito da un semplice approdo sabbioso. Sembra che la convivenza con le popolazioni locali sia sempre stata pacifica, anche perché le attività commerciali che si sviluppavano rappresentavano un vantaggio per entrambi. Correlativo importante dello spazio commerciale fu la terra circostante, la cui coltivazione consentiva alla comunità fenicia di mantenersi senza dipendere da alcuna popolazione locale. I Fenici trasferirono le esperienze maturate nelle pianure libanesi un po’ in tutto il Mediterraneo e dal Libano a Cadice diffusero, oltre alle consuete merci, anche tecniche agricole a vantaggio delle comunità locali. Sia le fonti greche che quelle romane non mancano di citare le tecniche fenicie per la coltivazione dei cereali, della vite, dell’olio e degli alberi da frutto; va ribadito comunque che i Fenici non coltivarono mai la terra per colonizzarla.

Uno degli insediamenti che merita una particolare attenzione è Cartagine, fondata alla fine del IX secolo a.C. All’inizio, Cartagine non dovette essere diversa da tutte le altre colonie fenicie; poi, a partire dalla metà del VII secolo a.C., incominciò a costruire propri empori nel Mediterraneo occidentale, dalla Sardegna alla Spagna, e allo stesso tempo intensificò i suoi traffici con gli Etruschi in Italia; così assunse sempre più il controllo degli empori fenici di Sardegna e Sicilia in direzione del Mar Tirreno settentrionale. Cartagine costituì insomma un polo autonomo di potere, svincolatosi dalla dipendenza delle città libanesi. Nel momento in cui tentò di assumere il controllo del Mediterraneo occidentale, dovette confrontarsi con le colonie greche e il risultato fu una spartizione, non sempre in maniera pacifica, delle relative aree di influenza. Nel corso di un secolo Cartagine assunse così un ruolo egemone nel Mediterraneo occidentale, che mantenne fino al momento in cui, nel III secolo a.C., si scontrò con Roma.

Ciò che spinse tanto lontano i Fenici fu anzitutto la ricerca e il commerciare metalli, bene assolutamente prezioso nel mondo antico, venduto soprattutto come materia prima non lavorata. La carta degli insediamenti fenici ricalca, non a caso, tutte le zone nelle quali le risorse minerarie erano varie ed abbondanti: a Cipro il rame, in Sardegna e in Spagna l’argento, il piombo, il rame, il ferro, lo zinco, lo stagno, in Tracia l’oro. Anche i viaggi oltre Gibilterra ebbero questa motivazione di fondo: nel nord Europa i Fenici trovarono e sfruttarono miniere di stagno. L’estrazione dei metalli era per lo più a carico delle popolazioni locali che continuavano a mantenere il controllo delle miniere. I Fenici acquistavano i minerali, li fondevano in lingotti e li commercializzavano. Oltre al commercio dei metalli, i Fenici erano celebri per il legno di cedro, con il quale non si costruivano solo navi, ma anche edifici di particolare importanza (uno tra i tanti ad esempio fu il tempio di Gerusalemme).

Oltre alle merci pregiate per il loro valore, come i metalli e il legno, c’erano due beni di lusso associati da sempre al popolo fenicio, il vetro e i tessuti tinti con la porpora. La tradizione attribuisce ai Fenici l’invenzione della tecnica per la fusione del vetro, a partire dalle sabbie delle coste libanesi ricche di silicio, e altrettanto la scoperta che il mollusco detto dai latini murex conteneva un colore rosso cupo, con il quale era possibile tingere stoffe di lana o di lino. In realtà recenti studi archeologici hanno spostato ad epoche anteriori l’origine del vetro, ma certamente furono proprio i Fenici a sfruttare in modo più intensivo queste risorse.

Concludiamo, infine, con qualche curiosità storica sugli Fenici. Tra le tanti produzioni artigianali, dal IX secolo vi fu un rincaro dei costi degli oggetti di provenienze esotica al punto che i mercanti, non riuscendo ad adattarsi alla richiesta del mercato e ai suoi costi, giunsero a falsificare tali oggetti (il costo risultava più basso), che venivano rivenduti nei mercati occidentali. A tal proposito si conosce anche il pensiero dei Greci a riguardo i Fenici [premettiamo che nelle fonti greche vi è sempre un certo sospetto e diffidenza verso l’elemento “barbaro”]: l’ammirazione nei loro confronti – a partire da Omero – sconfina spesso nel sospetto che truffassero i propri interlocutori commerciali, ma anche che abusassero dei loro mezzi per rapire (e rivendere come schiavi) e praticare pirateria. La mancanza di fonti fenicie, del resto, non ci permetterà mai di sapere cosa i Fenici pensassero dei Greci…

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