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La rivolta di Nika (532)

Introduzione

L’Impero romano d’Oriente, già travolto dalle invasioni di Slavi e Anti, nell’anno 532 dovette far fronte anche a gravi disordini interni, che videro come protagonisti i partiti popolari (demi) di Costantinopoli, una delle realtà romano-imperiali che ancora sopravvivevano in Oriente. Essi erano delle organizzazioni che traevano origine dalle vecchie fazioni sportive dell’Ippodromo, di cui ne portavano il nomi e colori, ed erano perciò una delle valvole di sfogo sociali che potevano anche dare una chiara idea di espressione della volontà politica del popolo.

Basamento dell’obelisco di Teodosio, in cui è rappresentato l’imperatore romano Teodosio I con i suoi due figli Arcadio e Onorio, sotto le due diverse tifoserie dei verdi e degli azzurri.

I partiti più popolari erano i cosiddetti Azzurri e Verdi, che rappresentavano delle vere e proprie organizzazioni politiche: i loro capi venivano nominati dal governo imperiale, che loro servivano in funzione pubblica come milizia cittadina e manodopera per la manutenzione delle strutture difensive della città. Il loro nucleo era quindi costituito da milizie cittadine: attorno a questi nuclei si schierava poi il resto della popolazione, che si ritrovava spaccata a sostenere o gli uni o gli altri. La presenza di fazioni di questo genere non era solo esclusiva di Costantinopoli, ma di tutte le città dell’Impero.

La direzione, che ne ha influenzato gli orientamenti, era, per gli Azzurri, in mano a rappresentanti dell’aristocrazia senatoriale latifondista, mentre, i Verdi erano guidati da esponenti dei ceti commerciali o artigiani, e anche da elementi che avevano fatto fortuna servendo l’Impero nelle province orientali, da cui provenivano. I demi si differenziavano anche per orientamento religioso: gli Azzurri sostenevano le politiche ortodosse degli ultimi due imperatori (Giustino e Giustiniano), mentre i Verdi quelle filo-monofisite (seguite dall’imperatore Anastasio). I continui contrasti tra i due schieramenti costrinsero l’autorità imperiale a schierarsi effettivamente o con l’uno o con l’altro. I risultati non furono, al di là dello schieramento imperiale, molto buoni: negli ultimi decenni la lotta si era fatta talmente aspra che era “normale” che questi contrasti culminassero in episodi di violenza. Ad esempio, l’opposizione all’imperatore Anastasio, appoggiato dai Verdi e osteggiato dagli Azzurri, portò da parte di questi ultimi l’incendio di molti edifici pubblici, la distruzione delle statue dell’imperatore e addirittura un lancio di sassi e insulti al suo indirizzo. Una successiva rivolta (nel 512) rischiò persino di portare alla destituzione dell’imperatore.

Principio

Giustiniano raffigurato su un mosaico in San Vitale a Ravenna

La politica religiosa di Giustiniano si contrappose al monofisismo (promotore ne fu Eutiche, il quale affermò che prima dell’incarnazione vi erano due nature, ma successivamente una sola derivata dall’unione delle due nature stesse. Era solito riassumere il concetto affermando che: la Divinità aveva accolto l’Umanità, come il mare accoglie una goccia d’acqua.) che creava problema, ma egli seppe accontentarsi in maniera equilibrata perché ci fu un gioco equilibrato con la basilissa, Teodora, e Giustiniano era il difensore dell’ortodossia, il credo Calcedoniano (Cristo riconosciuto nella natura divina e umana) sancito dal Concilio di Calcedonia nel 451; Teodora invece si presentava come la protettrice dei monofisiti, ma la coppia seppe giocare bene le sue carte a riguardo e non si inimicarono i contendenti sul tappeto.

Procopio di Cesarea è lo storico che si è occupato in modo particolare di Giustiniano ed è un autore monografico. L’inventore del genere storiografico è Eusebio di Cesarea ed è l’iniziatore della storia ecclesiastica intesa come corpo separato dallo Stato e non è un caso che la sua storia si fermi nel momento in cui Costantino diventa signore dell’impero nel 324, ebbe dei continuatori come Evagrio Scolastico. Dopo il VI secolo questo genere si esaurisce con una breve ripresa nel XIII secolo ma che non durò molto. Eusebio di Cesarea non andò oltre perché capì che non aveva senso scrivere nel momento in cui Costantino aveva inglobato la Chiesa nello Stato e dopo Costantino se si voleva scrivere di questo genere bisognava parlare quindi della politica poiché divennero le due facce della stessa medaglia.

IL RACCONTO DELLA RIVOLTA DAGLI OCCHI DI UN TESTIMONE OCULARE

Nel 532 ebbe luogo una rivolta a Costantinopoli, con l’intento di deporre Giustiniano e Teodora dal potere e Procopio di Cesarea ne testimonia i fatti nell’opera “Storia delle guerre”:

«Accadde dunque che il prefetto della città di Bisanzio (Leparco in greco, ndr.) conducesse a morte alcuni facinorosi. Gli uomini delle due fazioni, venuti a un accordo e stretto un patto reciproco, rapirono i condannati durante la traduzione (cioè il trasporto, ndr.) e con un’improvvista irruzione nel carcere liberarono chiunque vi era detenuto per crimini di sedizione o per altro reato. Gli addetti alla magistratura della città venivano uccisi indiscriminatamente, mentre la parte sana dei cittadini fuggiva nel continente di fronte (Asia Minore, ndr.) e la città veniva data alle fiamme, quasi che fosse caduta in mano nemica. La chiesa di Santa Sofia, le terme di Zeuxippo e la parte della reggia che andava dai propilei alla cosiddetta casa di Ares furono distrutte dall’incendio, e inoltre tutti e due i grandi portici che arrivavano fino al foro detto di Costantino, nonché molte casa e ingenti ricchezze di gran signori. L’imperatore, la sua consorte e alcuni dei senatori si serrarono nel palazzo e vi rimasero tranquilli. Le fazioni si davano reciprocamente una parola, Nika (cioè “Vincere!”, ndr.) e ancor oggi quella rivolta si chiama con questo nome.

Era allora prefetto del pretorio (Prefetto dell’Oriente, ndr.) Giovanni il Cappadoce, mentre Triboniano, di stirpe panfilica, era paredro dell’imperatore (questore secondo la nomenclatoria latina, ndr.). Uno dei due, Giovanni, era del tutto digiuno di educazione e d’istruzione: aveva fatto le elementari senza imparare altro che l’alfabeto e per giunta male; ma fu l’uomo più ricco di doti naturali ch’io abbia mai conosciuto. Era abilissimo nel capire il da farsi e nel trovare la soluzione in situazioni difficilissime, ma, essendo la più malvagia delle creature, si valeva delle sue doti a fini perversi e non albergava nell’animo né il timor di Dio né il rispetto degli uomini; ciò che gli premeva era rovinare l’esistenza di molta gente a scopo di lucro e spianare intere città. In breve tempo accumulò una grande ricchezza e si abbandonò a una crapula senza limiti, intento fino all’ora di pranzo a saccheggiare i beni dei sudditi e dedito per il resto della giornata all’ubriachezza e ai più turpi piaceri carnali. Era incapace di fermarsi: mangiava fino a dover vomitare, era sempre pronto a rubare quattrini, e ancor più pronto a spenderli e dilapidarli. Giovanni era fatto così.

Triboniano: bassorilievo in marmo alla Camera dei Rappresentanti del Campidoglio di Washington

Triboniano aveva doti naturali ed era giunto all’apice della cultura in misura ben superiore rispetto a tutti i contemporanei, ma per una diabolica avidità di denaro era capace di amministrare la giustizia per lucro, e quanto alle leggi, quasi ogni giorno ne abrogava alcune e ne scriveva altre, vendendo l’uno o l’altro dei suoi provvedimenti a chi li chiedeva in ragione di una propria necessità. (Procopio parla male dei due funzionari e getta un ombra anche sulla figura di Giustiniano, ndr.)

Finché nel popolo ci fu lotta per i colori delle fazioni, non si considerarono le colpe di quei due verso la cosa pubblica. Ma quando si misero d’accordo, come s’è detto, e si sollevarono, cominciarono a inveire apertamente contro di loro per tutta la città e ad andare in giro in cerca del destro (occasione, ndr.) per ammazzarli. Per questo l’imperatore, volendo conciliarsi con il popolo, li destituì tutt’e due di punto in bianco e nominò prefetto del pretorio il patrizio Foca, un uomo molto assennato e per natura assai sollecito della giustizia, e affidò la questura a Basilide, noto fra i patrizi per moderazione e ragguardevole sotto ogni aspetto. Non perciò la rivolta, sotto di loro, scemò d’intensità (quando la rivolta venne sedata nel sangue, Giustiniano ristabilì i precedenti al proprio ruolo, ndr.).

Il quinto giorno dall’inizio dell’insurrezione, sul far della sera, l’imperatore Giustiniano impartiva a Ipatio e Pompeio, nipoti dell’ex imperatore Anastasio, l’ordine d’andarsene subita a casa (Anastasio abolì il crisargiro e non lasciò eredi senza neppure nominare Ipatio co-imperatore e Giustino riuscì a prendere il trono, ndr.), o perché li sospettasse di un qualche complotto contro la sua persona, o perché il destino volle così (forse Giustiniano aveva saputo della spie di palazzo notizie su Ipatio e che stesse tramando alle sue spalle, ndr.). Essi, temendo che il popolo li forzasse a prendere il potere (fin dall’inizio Procopio sostiene l’estraneità di Ipatio e Pompeo ai fatti, ndr.), come poi avvenne, dicevano che non era giusto abbandonare il loro sovrano in una situazione così rischiosa. A queste parole l’imperatore Giustiniano s’insospettì ancora di più e ordinava loro d’andarsene all’istante. Così i due si ritirarono nella loro abitazione e per il momento (era notte, ndr.) se ne stettero cheti.

Ma il giorno dopo, al levar del sole, si riseppe fra il popolo che entrambi avevano abbandonato il soggiorno a palazzo. Tutti si misero a correre a casa di Ipatio e Pompeo: acclamarono imperatore Ipatio e volevano condurlo al foro perché assumesse le funzioni sovrane. Ma la moglie di Ipatio, Maria, donna intelligente e in fama di grande virtù, s’aggrappava al marito senza lasciarlo andare e gridava con lamenti e implorazioni a parenti e amici che il popolo lo portava a morire. Fu però sopraffatta dalla folla e suo malgrado si staccò dal marito che contro la sua volontà fu condotto dal popolo al foro di Costantino e designato all’impero (è un’affermazione difficilmente condivisibile se Ipatio fosse contrario, ndr.). Non avevano né un diadema ne alcun’altra delle insegne con cui di norma s’incorona l’imperatore, sicché gli misero in testa una collana d’oro e lo proclamarono imperatore dei romani. Ormai si radunavano anche i senatori che non erano rimasti a palazzo (forse furono proprio questi senatori a fomentare la rivolta per la politica repressiva contro l’aristocrazia di Giustiniano, ndr.) e molti esprimevano il parere che si dovesse andare alla reggia a combattere. Ma il senatore Origene si fece avanti a dire questa parole: […] (Procopio alla stregua dei grandi autori greci inserisce personaggi che parlano facendo discorsi durante il racconto con parole che rendono praticamente la situazione, ndr.).»

[Nel suo discorso Origene consiglia di temporeggiare perché se si va a combattere l’esito può essere duplice, o si vince o si perde, ed essendoci molti palazzi in cui portare il nuovo imperatore e quindi se Giustiniano continua a essere imperatore il suo potere si sfaterà non avendo più il consenso del popolo e dovrà andarsene, ma se invece andranno subito al palazzo imperiale a combattere perderanno, ndr.]

«[…]Ma gli altri, come suol comportarsi la folla, si opponevano accanitamente e ritenevano producente l’azione immediata, e così anche Ipatio (la cui sorte era segnata, ndr.) si lasciò condurre per la via dell’ippodromo. C’è chi dice che sia andato lì apposta perché stava dalla parte dell’imperatore. (Affermazione strana, essendosi fatto prima nominare imperatore per poi andare all’ippodromo se stava con Giustiniano, ndr.)

L’imperatrice Teodora in un particolare dei mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna.

L’imperatore e i suoi tenevano consiglio se fosse meglio restare o darsi alla fuga sulle navi: correvano gran discorsi in un senso e nell’altro. L’imperatrice Teodora parlò così: “Se sia male che una donna si faccia ardita tra uomini o se possa mostrare coraggio fra pavidi, non credo possibile deciderlo nella situazione presente, quale che sia fra le due l’opinione da accogliere. Quando gli eventi giungono al rischio estremo non c’è nulla di più utile, mi pare, che risolvere al meglio la situazione immediata. La fuga, io la ritengo in questo momento più che mai assolutamente inopportuna, anche se ci procura salvezza. Come un qualsiasi uomo, una volta venuto alla luce, non può non morire, cosi il fatto che chi ha regnato divenga un fuggiasco non è ammissibile. Io non sarei più nulla senza questa porpora e non potrei vivere più il giorno in cui la gente non chi chiamasse sovrana. Dunque, se vuoi salvarti, sire, non c’è problema (Procopio fa intendere che Giustiniano era propenso alla fuga, ndr.): abbiamo molte ricchezze, là c’è il mare, qui ci sono le navi: ma bada bene che, una volta in salvo non t’accada di preferire alla salvezza la morte. Quanto a me, mi piace, l’antico detto: <un bel sudario è il potere> (Citazione da Isagora, ndr.).”»

[Procopio fa dire queste parole all’imperatrice perché vuol far fare una brutta figura a Giustiniano e sminuirlo ma nella realtà Teodora non avrebbe mai potuto fare un discorso del genere dinanzi ai funzionari di stato, perché Procopio appartiene al ceto senatorio, ndr.]

«Quando la sovrana ebbe così parlato, presero tutti coraggio, e invigoriti si consultavano sulla possibilità di difendersi da un eventuale attacco nemico. Tutti quanti i soldati, compresi quelli schierati nella corte imperiale, non avevano simpatia per l’imperatore ne volevano prendere iniziative palesi, ma stavano ad aspettare l’esito degli eventi.

L’imperatore riponeva tutte le sue speranze in Belisario e in Mundo (nella capitale non vi erano truppe ausiliare ma solo imperiali). Belisario, era tornato da poco dalla guerra persiana e si portava dietro una scorta gagliarda e cospicua: aveva un gran numero di armigeri e scudieri ben addestrati negli scontri e nei pericoli della guerra. A Mundo, nominato comandante dell’Illiria, era accaduto per caso di venire a Bisanzio, chiamatovi per qualche motivo, con una scorta di eruli (Mercenari, ndr.).

Ricostruzione in 3D dell’Ippodromo di Costantinopoli.

Ipatio, giunto all’ippodromo, sale subito al posto riservato al sovrano e si siede sul seggio imperiale, di dove l’imperatore assisteva di solito alle gare ippiche ed atletiche. Mundo uscì dalla reggia attraverso la porta, proprio nel punto che, dalla forma circolare della discesa, è chiamato la Chiocciola. Belisario da prima puntava direttamente su Ipatio e sul trono imperiale, ma giunto all’edifico vicino, sede fin dai tempi antichi di un corpo di guardia, si mise a gridare ordinando ai soldati di aprirgli immediatamente la porta, per consentirgli di andare contro l’imperatore. Ma i soldati non vollero schierarsi né con Ipatio né con Giustiniano, finché uno dei due non avesse riportato una chiara vittoria e, facendo orecchie da mercante, lo respinsero.

Belisario ritornò dall’imperatore dichiarando disperata la situazione, perché i soldati di guardia al palazzo erano in rivolta contro di lui. L’imperatore gli ordinò di andare alla cosiddetta Porta di bronzo e ai propilei che si trovavano lì. Belisario, a stento e non senza pericoli e gravi fatiche, passando attraverso rovine e luoghi semicombusti, arrivò all’ippodromo. Una volta al portico degli Azzurri, che si trovava alla destra del trono imperiale, decise di avanzare prima di tutto contro Ipatio; ma, dato che c’era una porticina chiusa e difesa dall’interno dai soldati di Ipatio, temé che la folla gli piombasse addosso mentre combatteva nella strettoia e, uccidendo lui e i suoi seguaci, si muovesse con maggiore facilità e sicurezza contro l’imperatore (Giustiniano). Calcolò allora che gli conveniva assalire la gente affollata nell’ippodromo in numero sterminato, che si accalcava e spingeva in un gran disordine: sguainata la spada e comandato ai suoi di fare lo stesso, si diresse di corsa e urlando contro di quelli. I popolani, che formavano una massa e non uno schieramento, quando videro dei soldati armati di tutto punto e famosi per valore ed esperienza bellica, che menavano colpi di spada senza risparmio, si diedero alla fuga. Si levarono, com’è naturale, grandi schiamazzi. C’era lì vicino Mundo che voleva intervenire, da quell’uomo audace e attivo che era, ma, non sapendo come sfruttare la circostanza, una volta accertato che Belisario era all’opera, entrò subito nell’ippodromo per l’ingresso detto della Morte (perché prima vi si svolgevano i giochi gladiatori, ndr.). Allora i ribelli di Ipatio, colpiti a viva forza da ambo le parti, vennero annientati. Quando la rotta fu palese e molti popolani furono uccisi, Boraide e Giusto, nipoti dell’imperatore Giustiniano, senza che nessuno osasse contrastarli, tirarono giù dal seggio Ipatio, lo portarono dentro e lo consegnarono all’imperatore assieme a Pompeo. Quel giorno morirono più di trentamila popolani.

[Anche altre fonti testimoniano la cifra come Giovanni Malala, il quale dà anche una notizia in più: Giustiniano incaricò Narsete di cercare di dividere i rivoltosi con una cospicua somma di denaro perché, nel momento in cui intervenne Belisario, gli Azzurri già si separarono da Ipatio, ndr.]

L’imperatore ordinò che i prigionieri fossero messi sotto stretta custodia. A quel punto, Pompeo si mise a piangere e a proferire parole pietose, poiché era persona del tutto inesperta di situazioni e calamità del genere. Ipatio invece, dopo averlo coperto d’ingiurie, disse che uomini condannati a morire ingiustamente non dovevano piangere: da prima li aveva costretti il popolo loro malgrado, e in seguito erano andati nell’ippodromo senza intenzione di recar danno al sovrano. Ma il giorno dopo i soldati li uccisero entrambi e ne gettarono i corpi a mari (si era solito farlo, ndr.). L’imperatore confiscò i loro beni e quelli degli altri senatori che ne avevano preso le parti. Ma in seguito restituì a tutti e in particolare ai figli di Ipatio e Pompeo le dignità da essi ricoperte e i beni che non aveva donato ad amici. Bisanzio vide finire così la rivolta.»

Giustiniano dopo qualche tempo rende i beni confiscati ai legittimi proprietari, perdonandoli, in particolare ai figli di Ipatio e Pompeo che non avevano colpe, in questo modo agisce da filantropo come dovrebbe fare un imperatore guidato da Dio e dimostrando così la sua forza. Quando l’imperatore condanna a morte dimostra invece di avere paura di quei senatori. Il 532 fu dunque un anno terribile per Bisanzio e Giustiniano seppe comportarsi da imperatore contro una rivolta voluta dalla parte dei senatori e Procopio faceva parte di questa fazione. Anche Santa Sofia, dopo essere stata distrutta dall’incendio sarà ricostruita.

Teodora che interviene si schiera contro la fuga e dovette far convergere la decisione di Giustiniano verso quella decisione, fu una coppia molto solidale.

Il Giustiniano di cui parla Procopio è quello degli ultimi anni, nel 441/42 Costantinopoli conobbe una grave pestilenza ed anche Giustiniano ne fu colpito ma guarì restando comunque acciaccato nel fisico per poi subire la perdita della moglie e iniziare a lasciare le redini ai suoi ministri. Teodora fu una delle più grandi basilisse nonostante la sua fanciullezza segnata.

Giustiniano muore nel 565 e subito dopo inizia un periodo di crisi nonostante le conquiste effettuate militarmente. La crisi è soprattutto economica. Nel 565 sale al trono il nipote, Giustino, figlio della sorella. Giustino si trovò ad affrontare questi problemi e nel 568 in Italia scendono i Langobardi che conquistano territori, ma il problema barbarico è adesso costituito dagli Avari, che si trovavano a nord della Crimea e che muovevano verso ovest. Nel 573/74 raggiungono il Danubio, e Giustino per tenerli buoni pagava un tributo che nel 573 non pagò più per problemi finanziari, gli Avari penetrarono nel territorio bizantino a sud del Danubio e sconfissero l’esercito bizantino guidati dal generale Tiberio, che dovette scendere a patti con gli Avari che si videro concessi tutti i territorio attorno a Sirmio tranne la città. Nello stesso tempo nel 574 anche i persiani cominciarono a pressare, infrangendo la pace perpetua conquistando Antiochia di Siria, dove per la prima volta era risuonata la parola “cristiani”. La perdita fu un grave colpo tanto che Giustino iniziò a diventare pazzo e la basilissa pressò per far nominare co-imperatore Tiberio, il quale divenne imperatore nel 578 dopo la morte di Giustino. Tiberio, secondo la prassi cessa di combattere con il suo esercito affidandolo ad un valoroso generale, Maurizio, che ottenne un grande successo nella pianura dell’Eufrate contro i persiani, il quale nel 582 ritorna vittorioso a Costantinopoli, appena in tempo per essere proclamato co-imperatore e nell’agosto Tiberio muore nello stesso anno. Maurizio sale al trono regnando per 20 anni.

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