«Il popolo romano non si preoccupa più di nulla: una volta distribuiva comandi, fasci e legioni, tutto! Ora non se ne cura e desidera soltanto due cose: pane e giochi!»
«Il popolo romano è interessato soprattutto a due cose: le distribuzioni gratuite di cibo e gli spettacoli»
Queste due testimonianze, rispettivamente del poeta Giovenale e del retore Frontone, ci lasciano un chiaro quadro su uno dei principali interessi del popolo romano. Un importante riscontro è dato anche dai calendari romani: se in età tardo-repubblicana fino agli inizi del principato erano 77 i giorni nei quali si tenevano i ludi (giochi pubblici e spettacoli), in piena età imperiale (III e IV secolo) la cifra sale fino a ben 177 giorni l’anno, ossia quasi un giorno di festa su due giornate. Alcuni imperatori, come Marco Aurelio, provarono ad imporre un limite minimo di giorni lavorativi (230 giorni), ma furono solo misure temporanee ben presto abbandonate.
I ludi si configuravano originariamente come eventi connessi al culto e venivano pertanto fissati dai collegi sacerdotali. Con il tempo si aggiunsero una serie di giochi gestiti direttamente da magistrati appositamente incaricati, che comprendevano corse di carri e rappresentazioni teatrali spalmati su più giorni. I ludi più noti erano quelli Romani, Plebei, Apollinares, Megalenses e Florales. Il boom vero e proprio di spettacoli pubblici si registra in età imperiale, quando questi iniziarono ad essere ‘utilizzati’ dal potere politico-imperiale per riscuotere popolarità. All’aumento del numero e della tipologia di manifestazioni si ha anche una diversificazione e una destinazione d’uso specifica a livello infrastrutturale nella stessa capitale Roma: le corse dei carri (ludi circenses) si svolgevano nel Circo Massimo (capienza di 250.000 spettatori), le rappresentazioni sceniche nel Teatro di Marcello (20.000 posti); combattimenti gladiatori (munera), cacce di belve (venationes) e battaglie navali (naumachiae) nell’Anfiteatro Flavio (‘Colosseo‘, 70.000 posti), mentre invece le gare di atletica (agones) avevano luogo nello stadio.
Le corse dei carri e le ‘tifoserie’. L’organizzazione delle corse dei carri era affidata a società private (factiones) gestite per lo più da esponenti dell’ordine equestre che si incaricavano di fornire aurighi, cavalli e carri. In età repubblicana esistevano solo due fazioni, i Bianchi (albata) e i Rossi (russata), che prendevano il nome dal colore della tunica indossata dai rispettivi aurighi; successivamente in età imperiale si aggiunsero i Verdi (prasina) e gli Azzurri (veneta). Ad ogni corsa ciascuna fazione poteva partecipare anche con più di una quadriga.
Come sintetizza lo storico Ammiano Marcellino:
«Per i Romani il Circo Massimo è insieme tempio e casa, luogo di riunione e realizzazione dei desideri. Si ammassano nelle piazze, agli incroci, nelle strade, e discutono animatamente su questo o su quel partito. Chi è vicino alla fine della vita e ha quindi più autorità urla più degli altri, indica i capelli bianchi e le rughe, sostenendo che lo Stato crollerà se alla prossima curva il conducente su cui ha scommesso non verrà fuori per primo»
L’entusiasmo generato da questi eventi nei Romani era così smodato che ciascuna fazione utilizzava qualsiasi mezzo per ‘favorire’ la vittoria delle propria fazione. In casi ‘estremi’ si giungeva persino a praticare sortilegi o ad invocare i demoni affinché gli avversari non vincessero.
«Demone, che qui ti aggiri, ti affido questi cavalli, che tu li tenga indietro e che si leghino e non possano muoversi!» [epigrafe da Cartagine]
Non mancano poi riferimenti anche ad imperatori direttamente legati ad una delle fazioni. Caligola, ad esempio, è ricordato da Svetonio come un grande tifoso dei Verdi che non esitò a far avvelenare cavalli e aurighi avversari. In un episodio significativo (ma da prendere sempre con le pinze per attendibilità storica) Svetonio racconta che «[Caligola] mangiava e soggiornava continuamente nelle loro scuderie e un giorno, durante un’orgia, diede due milioni di sesterzi come dono d’addio ad un cocchiere», e che, colpito dal cavallo dei Verdi, tale Incitato, avesse ordinato ai soldati di ordinare il silenzio per lasciarlo riposare tranquillo, per poi dargli una stalla di marmo e degli schiavi che si occupassero appositamente di esso. Analoghe imputazioni riguardanti la ‘salvaguardia’ del tifo dell’imperatore le ritroviamo qualche decennio dopo con Vitellio, che fece uccidere alcuni plebei che parlavano male della tifoseria azzurra, la sua preferita.
Con il tempo le fazioni assunsero sempre più il carattere di veri e propri partiti politici. Anche nella nuova capitale, Costantinopoli, si mantenne pressoché inalterata tale ‘tradizione’ nell’Ippodromo del Palazzo Imperiale. Procopio di Cesarea, storico di VI secolo, oltre a narrare le catastrofiche conseguenze del tifo politicizzato (sfociate nella rivolta di Nika), nella sua Storia Segreta racconta che lo stesso tifo dell’imperatore Giustiniano, ancora prima della rivolta che rischiò di spodestarlo, fu uno dei principali problemi sociali della capitale: Giustiniano, infatti, da tifoso azzurro, era solito adottare una linea più morbida di giudizio verso quanti si riconoscevano nel suo tifo (che in realtà aveva un riflesso politico e religioso) al contrario di quanti appartenessero a fazioni differenti.
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