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I romanzi storici e le storie romanzate tardo-romane (III-IV secolo d.C.)

Accanto alla produzione storiografica vera e propria nel mondo romano ebbe grande successo anche il genere della narrativa storica d’invenzione. Tra il III e il IV secolo fiorirono infatti molti romanzi storici che ebbero grande successo tra il pubblico medio-basso – non particolarmente colto – cui erano destinati. Questi cercavano di spacciare come veri i fatti narrati, mentre in realtà erano traduzioni di romanzi originali greci, ed erano incentrati su storie ambientate in mondi e tempi lontani, come ad esempio l’Oriente e le vicende mitiche, mettendone in risalto i rispettivi elementi fantastici e descrizioni del meraviglioso.

Vediamo le principali opere di narrazione romanzata.

Il Romanzo di Alessandro. Il personaggio principale, Alessandro Magno, si adattava bene alle caratteristiche del genere romanzato: vicende belliche, luoghi ignoti, fatti quasi fantastici si fusero alle narrazioni storiche vere e proprie dando così vita ad una rielaborazione originale di II-III secolo d.C. (falsamente attribuita a Callistene) che si articolò – complice il successo – in varie versioni (greca, latina, armena, siriaca). La versione latina più famosa, tradotta da un originale greco, fu quella di Giulio Valerio Alessandro Polemio, risalente all’età di Costantino: tra le sue caratteristiche linguistiche, a testimonianza dei mutamenti e del distacco dal latino classico, la presenza di numerosi elementi volgari.

La figura del condottiero macedone si presenta come “afflitta” da una infinita sete di conoscenza e l’insofferenza verso ogni limite, che sotto questo aspetto può considerarsi anche una «figura» di
Ulisse (come quello dantesco).

In questo passo la curiosità di Alessandro è tale da voler esplorare persino i fondali marini, al punto da far costruire una sorta di sottomarino per permettergli di vedere il fondo del mare:

Miniatura del Roman d’Alexandre, Jean de Grise 1338-44. Oxford, Bodleian Library, ms.264, f50r.

Signori, disse Alessandro, ho fatto grandi conquiste
[…] Vi voglio ora dire quello che ho in testa:
sono andato abbastanza su e giù per la terra,
voglio sapere la verità di quelli che stanno nel mare,
non mi fermerò finché non ne avrò l’esperienza
[…] Gli artigiani gli hanno fatto uno scafo molto ricco,
era tutto di vetro, chiaro, non se ne vide mai più bello.
Fanno anche delle lampade tutt’intorno allo scafo,
che ardevano lì dentro, gioiose e suggestive.
Non ci potrà essere in mare pesce per quanto piccino
che il re non veda bene, o attacchi o imboscate.

Quando ci fu entrato con i suoi due compagni,
era bene al sicuro, come nella torre di un castello

“Il sommergibile di Alessandro Magno”, miniatura tratta dal codice ‘Histoire du bon roi Alexandre’, 1320, Kupferstichkabinett Staatliches Museum Preußischer Kulturbesitz, Berlino.

[…] Il batiscafo fu portato in acqua dal battello
e fu serrato intorno da tutte le parti col piombo
[…] E quando il batiscafo fu sceso là sotto,
la luce delle lampade ardeva molto chiara.
Il batiscafo fu guardato dai pesci tutto intorno,
non ce ne fu uno così ardito da non essere spaventato,
per il grande splendore cui non era abituato.

Il tutto ovviamente con la disapprovazione del suo esercito, intimorito dalla possibilità di nuove battaglie e nuove marce verso luoghi sperduti che sarebbero prima o poi finiti:

[16] Ma i Macedoni, che avevano creduto di essersi lasciati ormai alle spalle ogni rischio, quando seppero che li aspettava una nuova guerra con le popolazioni più selvagge dell’India, colti da improvviso terrore cominciarono di nuovo ad accusare il re con parole di rivolta: [17] costretto a lasciare da parte il fiume Gange e le terre al di là, egli non aveva messo fine alla guerra, l’aveva solo trasformata. Erano stati lanciati contro genti non ancora domate, perché aprissero a lui col loro sangue l’Oceano. [18] Venivano trascinati oltre le stelle e il sole e costretti ad arrivare in luoghi che la natura aveva nascosto agli occhi dei mortali. Per le loro armi sempre nuove nuovi nemici apparivano. Quando li avessero tutti sbaragliati e respinti, quale premio li attendeva? Oscurità e tenebre e una perpetua notte incombente sul mare profondo, una distesa d’acqua piena di torme di animali spaventosi, onde immobili nelle quali la natura, venendo meno, non aveva più potere.

Historia Apollonii regiis Tyrii. Databile tra il III e il IV secolo d.C., il testo alterna prosa e versi; non è certa la provenienza dalla narrativa greca. La storia narra le avventure del principe di Tiro Apollonio. Questi, dopo aver risolto un indovinello che il re di Antiochia imponeva ai pretendenti di sua figlia per sposarla, è costretto a fuggire a Cirene, dove sposa la figlia del re locale.

“Mi trasporta un delitto; mi cibo delle carni di mia madre; cerco un fratello mio, figlio di mia madre, marito di mia moglie e non lo trovo”.
Apollonio si prende alcun tempo per riflettere, poi va da Antioco e dice: “Eccoti la soluzione.
Dicesti: “Mi trasporta un delitto” e non mentisti; basta che tu guardi te stesso. Aggiungesti: “Mi cibo delle carni di mia madre”, e nemmeno in questo mentisti: guarda tua figlia”. Antioco capisce che il giovane ha trovato la soluzione, ma fissando su Apollonio gli occhi infiammati d’ira: “Sei ben lontano – gli dice – o giovane, dalla soluzione; anzi, sei del tutto fuori strada: non una sola parola giusta hai detto. Meriteresti perciò che ti facessi mozzare il capo; ma preferisco concederti trenta giorni di tempo. Ripensaci bene; e se, quando tornerai, mi porterai la soluzione esatta, mia figlia sarà tua moglie; in caso contrario, farai esperienza della durezza delle mie leggi”.

Tornato ad Antiochia per reclamare il trono, perde la moglie che muore durante il parto; decide quindi di recarsi in Egitto come mercante e affida la figlia Tarsia ad alcuni amici. Il rapimento della figlia da parte di alcuni pirati scatenerà una serie di avvicendamenti che si concluderanno con il ritrovamento da parte di Apollonio sia della figlia che della moglie, che si scoprirà in realtà essere viva e vegeta ad Efeso dove era intanto divenuta sacerdotessa di Artemide. L’intreccio di vicende, le morti apparenti e il riconoscimento dopo lunghi periodi di separazione sono tutti elementi tipici dei romanzi d’amore e d’avventura greci. L’opera godrà di una fortuna tale da sopravvivere sia al medioevo con tutti i suoi rifacimenti fino ad essere utilizzata da Shakespeare come ispirazione per il Pericle principe di Tiro, per la Gitanilla di Miguel de Cervantes, e per un episodio di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo.

 

Altre opere, più di quelle già esposte finora, ebbero come obbiettivo il dimostrare la veridicità dei fatti narrati in vicende lontane nel tempo (come la guerra di Troia), riuscendo a produrre una narrazione romanzata senza gli elementi fantastici tipici dell’epica omerica.

Scena di battaglia fra achei e troiani, kylix attico a figure rosse da Vulci (490 a.C.), Museo del Louvre, Parigi.

Ephemeris belli Troiani. L’opera si presenta come un diario (in greco ephemeris) composto da un tale Ditti Cretese al ritorno in patria dopo il conflitto: il testo giunto fino ad oggi è la traduzione latina di IV secolo ad opera di uno sconosciuto Lucio Settimio, che in un’epistola a Quinto Aradio Rufino ne vanta la traduzione dal greco. Lo stesso Lucio Settimio traccia la storia fittizia dell’originale greco: esso sarebbe stato scritto in fenicio e ritrovato in epoca neroniana nella tomba di Ditti (mai menzionato nell’Iliade!) a Cnosso; la traduzione latina sarebbe stata integrale nei primi cinque libri e riassuntiva nei restanti. Dell’originale greco ne è stata comprovata l’esistenza in seguito ai ritrovamenti di alcuni versi su papiri di III secolo d.C..

Daretis Phrigii de excidio Troiae historia. Trattasi di una tarda rielaborazione latina di V secolo d.C. di un testo greco noto almeno dal II secolo d.C.; il testo si presenta fittiziamente come una traduzione di Cornelio Nepote scritta per Sallustio. Se nel romanzo di Ditti Cretese era un greco a raccontare le vicende della guerra di Troia, in quest’opera il personaggio narrante, Darete Frigio, è di parte troiana. Il nome questa volta non è casuale: l’autore tardo-antico, infatti, utilizza il nome di uno dei personaggi che compaiono nell’Iliade, tale Darete sacerdote di Efesto (Iliade, V), pretendendo di presentare la narrazione come un racconto storico vero e proprio.

Sia i romanzi di Ditti Cretese che di Darete Frigio avranno grande fortuna nel Medioevo e saranno la principale fonte dei poemi e dei romanzi dell’epoca sul ciclo troiano.

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