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L’immigrazione nell’Impero romano

Dagli inizi del III secolo l’immigrazione rappresentò per l’Impero romano una risorsa per certi versi indispensabile: tanto il ripopolamento delle campagne spopolate dalla guerra e dalle epidemie, quanto il reclutamento di un esercito che aveva bisogno ossessionato di uomini, finirono per dipendere in larga misura dalla capacità delle autorità romane di accogliere immigrati, o, in casi gravi, di organizzare deportazioni forzate verso le regioni interne dell’Impero. Tutte queste operazioni, tra cui la necessità dell’assimilazione, avevano un’approvazione di fondo, che metteva in secondo piano sia le modalità brutali con cui avvenivano che la corruzione degli apparati incaricati della gestione. Questa priorità si rispecchia infatti nella cultura “ufficiale” imperiale sull’universalismo dell’Impero, che vedeva nella figura dell’imperatore un padre e protettore di tutti gli uomini, che aveva il dovere morale di estendere la pax e la felicitas a tutti i popoli che volevano aspirarne.

Questa politica dell’assimilazione era espressione di un’autocrazia che riteneva – non a torto – di avere le mani completamente libere per attuare qualsiasi politica che poi appariva di giovamento per lo Stato. Se nell’epoca del principato vi era ancora qualche leggera protesta a difendere la purezza della stirpe romana minacciata dalle concessioni di cittadinanza sempre più ampie, nell’epoca del dominato scompare (o viene fatta scomparire) del tutto. Il governo imperiale non aveva infatti il minimo interesse a difendere l’omogeneità etnica della popolazione, così come quella degli eserciti: non che il problema non si ponesse, ma non veniva preso addirittura in considerazione a fronte di problemi (spopolamento e mancanza soldati) più gravi. Le prime aree a fare da “laboratorio” politico e sociale di queste politiche furono le campagne, dove bastò essere iscritti ai registri degli uffici di leva; proprio lì avvennero i primi contrasti tra elementi romani e barbarici, a cominciare dal provvedimento di trapianto di Sarmati e Alemanni in Gallia e Italia.

Dato il legame tra terra e leva, ad occuparsi dell’immigrazione fu soprattutto l’amministrazione militare: del resto l’esercito poteva rappresentare l’unica occasione per i ceti meno abbienti di poter fare carriera, e, conseguentemente, questa opportunità fu colta anche dagli immigrati, che si trovarono, nel loro processo di integrazione, ai vertici della società romana. Le grandi possibilità che offriva l’esercito con il tempo lo fecero diventare progressivamente l’organismo su cui si basava anche la gestione del prelievo fiscale, favorendo quindi l’immissione di nuovi elementi che ne facessero parte.

La situazione peggiorò, e i primi segni chiari del cedimento, con Teodosio, portarono, nel caos generale, a favorire ancora una volta e in maggior misura le misure di integrazione: l’Impero si vide costretto a lasciar varcare i suoi confini da moltitudini di gente che non rientravano in nessun programma di accoglienza o (nel caso lo fossero) non vi erano effettive possibilità di sistemazione. Il cambio di politica fu tale che anche il vecchio meccanismo, corrotto e non, che aveva favorito nei secoli precedenti l’integrazione, entrò in crisi. A partire da allora, gli stanziamenti delle popolazioni barbariche con i loro capi nelle province dell’Occidente da un lato e gli obblighi fiscali che gravavano sulle popolazioni provinciali dall’altro, comportarono sempre più spesso una perdita dell’effettivo controllo del territorio da parte del potere centrale imperiale e la nascita (a partire da forme di federazione) di regni prima autonomi e poi a tutti gli effetti indipendenti.

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