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Le prime testimonianze di volgare italiano

In Italia il volgare si afferma con ritardo rispetto alle altre regioni europee, tanto come lingua parlata quanto come lingua scritta. Le ragioni del ritardo sono dovute al maggior prestigio conferito al latino dalla tradizione di Roma e della Chiesa e alla mancanza, nella nostra penisola, di un potere politico centrale che favorisca la diffusione del volgare, come invece accadde in Francia a partire da Carlo il Calvo.

L’Indovinello Veronese. Prima della metà del X secolo si ha un esempio di forma intermedia fra il latino e il volgare (un “latino corrotto”) nell’Indovinello Veronese risalente alla fine del secolo VIII o all’inizio del IX secolo, inserito da un copista veronese in un codice elaborato nella Spagna araba. La versione più probabile del testo, difficilmente decifrabile, è la seguente:

«Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, et negro semen seminaba.»

«Lo scrivano spingeva innanzi a sé i buoi [dita], arava i bianchi prati [carta], teneva il bianco aratro [penna d’oca] e seminava il seme nero [inchiostro].»

L’interpretazione dell’indovinello sembra dunque legata al parallelismo fra l’atto di arare e di seminare e quello di scrivere, fra il contadino e lo scrivano. Probabilmente il copista si sarà divertito a introdurre una nota ludica giocata sullo scambio fra livelli linguistici e tematici diversi (alti e bassi, dotti e popolari). I volgarismi sono evidenti: se al posto del latino sibi, negro per nigro, pareba per parabat, versorio per versorium, ecc..

Il Placito Capuano. La piena coscienza della distinzione fra volgare e latino e l’uso consapevole del primo in un documento scritto si hanno nel Placito Capuano del marzo 960, primo di quattro Placiti (detti anche Placiti Cassinesi) del 960-963: si tratta di quattro sentenze giudiziarie volute dal giudice di Capua, Arechisi, in volgare perché i contenuti del discorso fossero chiari ai presenti, evidentemente ignari del latino.

La parola “placito” deriva dal latino placitum (“ciò che è piaciuto”); nel linguaggio giuridico è “ciò che è piaciuto al giudice”, cioè la sentenza messa per iscritto a conclusione di un processo. Esso contiene la formula in volgare:

«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedecti»

«So che quelle terre, entro quei confini di cui qui si parla, le ha possedute per trent’anni l’Abbazia di San Benedetto»

Con tale formula fu risolta una lite giudiziaria fra il monastero di Montecassino e un uomo di Aquino. Tre testimoni, comparsi dinanzi al giudice Arechisi, deposero a favore del monastero, avendo in mano una carta e toccando con il dito dell’altra i confini del luogo discusso che era stato occupato illecitamente da un vicino laico.

L’Iscrizione di San Clemente. Gli altri documenti a noi pervenuti risalgono a più di un secolo dopo. Fra questi, un’iscrizione su un affresco nella Basilica di San Clemente, a Roma, risalente al 1080 circa.

L’Iscrizione di San Clemente è apposta su un affresco che rappresenta un miracolo: i servi del pagano Sisinnio vogliono arrestare e portare via il santo e invece, senza che se ne accorgano, trascinano in realtà con fatica una pesante colonna. In bocca ai personaggi, come se fosse un fumetto, vengono messe delle frasi, e mentre il santo parla in latino, Sisinnio e due servi parlano in volgare:

«Sisinium: “Fili delle pute, traite” (“Figli delle p*****e, tirate”) / Gosmarius: “Abertel, trai” (“Albertello, tira”) / Albertellus: “Falite dereto colo palo, Carvoncelle” (“Fattigli sotto col palo, Carboncello”) / Sanctus Clemens: “Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis” (“A causa della durezza del vostro cuore vi siete meritati di trascinare sassi”)»

Come si può facilmente notare, il volgare romanesco è considerato un linguaggio basso rispetto al latino, lingua più elevata non a caso messa in bocca al santo.

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