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L’assassinio di Cesare nei racconti di Plutarco, Svetonio, Velleio e Appiano

Plutarco, Vite Parallele, Cesare, 65-66.

Artemidoro, cnidio di nascita, maestro di eloquenza greca e divenuto per questo familiare ad alcuni degli amici di Bruto, tanto da conoscere anche gran parte delle cose che si stavano preparando, giunse portando in un biglietto le cose che appunto intendeva denunciare: ma vedendo che Cesare riceveva ciascuno dei biglietti e li passava ai segretari che gli stavano vicino, accostatosi molto vicino: “Questo – disse – Cesare, leggilo da solo e subito; infatti c’è scritto qualcosa riguardo a faccende importanti e che ti riguardano”. Cesare dunque avendo ricevuto il foglio, fu impedito dal leggerlo, pur avendo iniziato molte volte, dalla calca di quelli che gli andavano incontro per supplicarlo, ma giunse in Senato tenendolo in mano e conservando solo quello. Alcuni invece sostengono che un altro gli diede quel foglio, e che Artemidoro neppure si avvicinò del tutto, ma fu spinto via in tutto il percorso. Ma questi fatti dopo tutto talvolta li determina anche la casualità; invece il luogo che accolse quell’assassinio e l’attentato, luogo nel quale allora si radunò il senato, che aveva collocata una statua di Pompeo e che costituiva un edificio di Pompeo tra quelli costruiti a ornamento per il teatro, indicava assolutamente che il fatto si verificò perché una divinità condusse e richiamò lì l’azione. E infatti si dice appunto anche che Cassio prima dell’attentato guardando verso la statua di Pompeo la invocò in silenzio, pur non essendo estraneo alle teorie di Epicuro: ma la circostanza, come sembra, essendo già vicino il terribile momento infondeva esaltazione ed emozione in luogo delle precedenti opinioni filosofiche. Antonio dunque, che era fedele a Cesare e robusto, lo tratteneva fuori Bruto Albino, avendo iniziato intenzionalmente una discussione che tirava per le lunghe; e mentre entrava Cesare il senato si alzò facendo atto di riverenza, e tra i complici di Bruto alcuni si disposero dietro il suo seggio, altri invece si fecero incontro proprio come se intendessero rivolgergli una supplica assieme a Tillio Cimbro che lo supplicava per il fratello esule, e parteciparono insieme alla supplica accompagnandolo fino al seggio. Ma poiché, sedutosi, respingeva le richieste e,siccome insistevano più decisamente, era arrabbiato con ciascuno di loro, Tillio afferrando la sua toga con entrambe le mani la tirò giù dal collo, il che era il segnale convenuto dell’attentato. E per primo Casca lo colpisce con una spada vicino al collo procurandogli una ferita non mortale né profonda, ma, come è naturale, emozionato all’inizio di una importante azione temeraria, tanto che anche Cesare, voltatosi, afferrò il pugnale e lo trattenne. E nello stesso tempo gridarono in qualche modo, il ferito in latino: “Disgraziatissimo Casca, che cosa fai?” e colui che lo aveva ferito, in greco, rivolto al fratello: “Fratello,aiutami”. E tale essendo stato l’inizio, quelli che per nulla erano consapevoli li prese spavento e terrore di fronte alle cose che accadevano, tanto che non osavano né fuggire, né difenderlo, ma neppure pronunciare una parola. Ma siccome di quelli che erano preparati all’assassinio ciascuno mostrava la spada sguainata, circondato intorno, e verso qualsiasi cosa rivolgesse lo sguardo, imbattendosi in ferite e in armi puntate sia contro il volto sia contro gli occhi,cercando di allontanarsi come una fiera era avvolto dalle mani di tutti; tutti quanti infatti bisognava che compissero e assaggiassero l’assassinio. Perciò anche Bruto gli inferse un unico colpo nell’inguine. E da parte di alcuni si dice che allora difendendosi dagli altri e spostandosi qua e là e gridando, quando vide Bruto che aveva sguainato la spada, tirò la toga sulla testa e si lasciò cadere, sia per caso, sia spinto da coloro che lo uccidevano, presso la base su cui è collocata la statua di Pompeo. E l’assassinio la insanguinò abbondantemente, tanto da sembrare che lo stesso Pompeo presiedesse alla vendetta sul nemico, steso sotto i suoi piedi e agonizzante per il gran numero delle ferite. Si dice infatti che ne abbia ricevute ventitre, e molti furono feriti gli uni dagli altri,dirigendo tanti colpi contro un solo corpo.

Vincenzo Camuccini, “Morte di Cesare” (particolare), 1805/6, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Svetonio, Vite dei Cesari, 81-82 e 86-88.

Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.

Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico dell’iniziativa, gli si fece più vicino, come se volesse chiedergli un favore: Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa ad un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: «Ma questa è violenza bell’e buona!» uno dei due Casca lo ferì dal di dietro, poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con il suo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, coperta anche la parte inferiore del corpo. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: «Anche tu, figlio?», Privo di vita, mentre tutti fuggivano, rimase lì per un po’ di tempo, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva in fuori, fu portato a casa. da tre servi. Secondo il referto del medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in, pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console M. Antonio e del maestro dei cavalieri Lepido.

Ad alcuni suoi amici Cesare lasciò il sospetto che non volesse vivere più a lungo e che non si preoccupasse del declinare della sua salute. Per questo non si curò né di quello che annunciavano i prodigi né di ciò che gli riferivano gli amici. Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento nell’ultimo decreto del Senato e nel giuramento dei Senatori, abbia congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio. Secondo altri, al contrario, preferiva cadere vittima una volta per sempre delle insidie che lo minacciavano da ogni parte, piuttosto che doversi guardare continuamente. Dicono che fosse solito ripetere che «non tanto a lui, quanto allo Stato doveva importare la sua salvezza; per quanto lo riguardava già da tempo aveva conseguito molta potenza e molta gloria; se gli fosse capitato qualcosa, la Repubblica non sarebbe certo stata tranquilla e in ben più tristi condizioni avrebbe subito un’altra guerra civile».

Su una cosa tutti furono d’accordo, che in un certo senso aveva incontrato la morte che aveva desiderato. Infatti una volta, avendo letto in Senofonte che Ciro, durante la sua ultima malattia, aveva dato alcune disposizioni per il suo funerale, manifestò la sua ripugnanza per un genere di morte così lento e se ne augurò uno rapido. Il giorno prima di morire, a cena da Marco Lepido, si venne a discutere sul genere di morte migliore ed egli disse di preferire quello improvviso e inaspettato. Morì a cinquantacinque anni e fu annoverato tra gli dei, non per formalità da parte di coloro che lo decisero, ma per intima convinzione del popolo. In realtà, durante i primi giochi che Augusto, suo erede, celebrava in suo onore, dopo la consacrazione, una cometa rifulse per sette giorni di seguito, sorgendo verso l’undicesima ora e si sparse la voce che fosse l’anima di Cesare accolta in cielo. Anche per questo si aggiunse una stella alla sommità della sua statua. Si stabilì di murare la curia in cui era stato ucciso, di chiamare le idi di marzo «giorno del parricidio» e di sospendere in quella ricorrenza i lavori del Senato.

Jean-Léon Gérôme, “The Death of Caesar”

Velleio Patercolo, Historiae romanae

Ma a questo uomo così grande e che si comportò con tale clemenza in tutte le sue vittorie non spettò (meglio spettarono) più di cinque mesi di godimento pacato del potere supremo. Perciò, quando tornò a Roma ad ottobre, essendo Bruto e Cassio i capi della cospirazione, dei quali egli non era riuscito a sottomettere il primo con la promessa del consolato, ed aveva offeso il secondo con la proroga della sua candidatura, fu ucciso alle Idi di Marzo, essendo stati coinvolti nella strage anche alcuni dei più intimi tra tutti i suoi amici, elevati al sommo onore dalla fortuna della sua fazione, cioè Decimo Bruto, Gaio Trebonio ed altri di nome illustre. Marco Antonio, il suo collega nel consolato, sempre pronto ad atti di sfida, aveva portato grande odio su quello mettendogli sulla testa, non appena sedette sui rostri durante i Lupercali, una corona reale, che fu respinta a tal punto da Cesare che non sembrava esserne dispiaciuto.

Karl Theodor von Piloty, “Murder of Caesar”

Appiano, Le guerre civili II, 116-117

Mentre Cesare sacrificava innanzi la curia, un tal altro gli porse uno scritto sulla congiura, ma egli entrò senza leggerlo nella curia: e da morto aveva ancora tra le mani quello scritto! Quello che poco dinanzi aveva, passando, felicitato Bruto e Cassio con augurio buono, fu visto parlare seriamente con Cesare mentre scendeva dalla lettiga. E la vista ed il parlare ormai lungo riempì di terrore i capi della congiura: e già si davano segno di uccidersi prima di ogni arresto. Nel procedere però del discorso si tranquillizzarono, perché videro Lena in aria di chi supplica per ottenere, e non di chi svela tradimenti: finché si rianimarono del tutto col veder Lena che ringrazia. È costume dei magistrati di prendere l’augurio avanti di entrare in Senato. Ora prendendolo anche Cesare, di nuovo la prima delle vittime era senza il cuore, o come altri dicono, senza il principio delle viscere. Ne interpretò l’indovino esser presagio di morte: Cesare replicò, sorridendo, che tal segno lo ebbe anche nelle Spagne quando era a combattere con Pompeo. Rispose l’indovino che egli allora era incorso in un grande pericolo, ma che ora il segno era molto più dimostrativo. Cesare ordinò che immolasse un’altra vittima ma l’augurio non migliorò. Ma vergognandosi di far attendere troppo il senato, e sollecitatone dai nemici, espressivi come l’amico, entrò nella curia senza attendere più le vittime: così si doveva compiere il destino di Cesare.

I congiurati lasciarono Trebonio a intrattenere Antonio con parole davanti alla porta: gli altri, sedutosi Cesare per primo, gli si tennero intorno in forma di amici, ma coi pugnali sotto il manto. Allora Tillio Cimbro, uno di essi, paratoglisi davanti, implorava il ritorno del fratello. Cesare ritardava la grazia, anzi la negava del tutto. Allora Cimbro pigliò, con l’apparente intenzione di supplicarlo, la porpora di lui; ma nel pigliarla la raggruppò e tirò per denudargli il collo gridando intanto: “Perché tardate ancora, amici!”. Allora Casca, soprastandogli al capo, lo pugnalò su per la gola; ma il colpo sfuggì, ferendo il petto. Cesare liberò la sua veste da Cimbro, afferrò la mano a Casca e, saltato giù dallo scranno, si girò verso Casca tirandolo violentissimamente: ma nel girarsi distese il fianco e un altro lì lo tra fisse. Ed intanto con gli stili in pugno Cassio lo pugnalò sul – la faccia, Bruto in un femore, e Bucoliano alla schiena. Cesare si voltava verso ciascuno fremendo e stridendo come una fiera ma dopo il colpo di Bruto, ormai disperando della vita, si avvolse il capo nel manto, e cadde con nobile modo ai piedi della statua di Pompeo. Gli assalitori infierirono su di lui caduto fino ai ventitré colpi, tanto che molti, per ansia di ferire lui, ferirono a vicenda se stessi e gli altri.

Antonio Palo

Laureato in 'Civiltà Antiche e Archeologia: Oriente e Occidente' e specializzato in 'Archeologie Classiche' presso l'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'. Fondatore e amministratore del sito 'Storia Romana e Bizantina'. Co-fondatore e presidente dell'Associazione di Produzione Cinematografica Indipendente 'ACT Production'. Fondatore e direttore artistico del Picentia Short Film Festival.

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