All’interno delle città, durante l’età arcaica si registrano significative trasformazioni nell’architettura pubblica. L’adozione, nell’ambito dell’architettura domestica, dell’impianto tripartito di origine orientale era stato alla base, nel periodo precedente, delle sperimentazioni applicate alle architetture delle regiae aristocratiche e delle più recenti tombe a camera. Nella fase arcaica il medesimo impianto costituisce il nucleo della planimetria del tempio, da questo momento vero e proprio monumento della città e simbolo dell’unità dei cittadini. La vita religiosa si sposta dalla dimensione domestica – la casa e la tomba – a quella pubblica. In particolare, nell’ultima fase del periodo arcaico, a cavallo tra il VI e il V secolo a.C., si assiste a un diverso e nuovo impiego delle disponibilità finanziare dei ceti aristocratici, destinate non più alla sfera privata ma alle spese per garantire lo sfarzo degli edifici pubblici, soprattutto di quelli templari.
Le strutture lignee dell’alzato del tempio erano completamente mascherate da splendide decorazioni in terracotta. Lo schema della copertura fittile a tegole, nato nella Grecia del VII secolo a.C. e assunto in Etruria già con le manifestazioni di Acquarossa e Murlo, viene ripreso nell’architettura religiosa, dove abbondano lastre, antefisse, gocciolatoi e grande statue acroteriali. Il repertorio della decorazione si allontana dalle lastre con fregi figurati con scene di caccia e simposio e dalle statue acroteriali di antenati seduti, troppo vicine all’autocelebrazione principesca, per preferire decorazioni desunte dai coevi modelli magno-greci, ricchi di soggetti mitici, con il loro carico simbolico, o di semplici motivi ornamentali.
Alla fine del VI secolo data la costruzione di una delle maggiori testimonianze dell’architettura templare etrusca, il tempio di Portonaccio a Veio, ornato da un apparato decorativo in terracotta policroma. Il tempio si inserisce nella preesistente area (le prime tracce risalgono agli inizi del VII secolo a.C.) del santuario dedicato a Menerva, che sorgeva immediatamente fuori dalle mura della città su una terrazza tufacea che affacciava sul fiume Mola. Un poderoso temenos recintava un’area trapezioidale all’interno della quale, verso il 510 a.C., viene eretto il tempio. L’edificio, a pianta quadrata di 60 piedi di lato (18 metri circa), era un tempio tuscanico a tre celle – o a cella unica con due colonnati laterali (?) – con un pronao a due colonne in facciata tra ante, elevato su basso podio. Le colonne erano realizzate in tufo stuccato così come i muri, che all’interno del pronao erano rivestiti da lastre fittili dipinte. La copertura lignea era interamente mascherata da lastre in terracotta, arricchite dall’inserimento di ornamenti plastici, tra cui spicca la ricca serie di antefisse policrome decorate con volti di menadi, gorgoni e satiri. Le principali opere decorative sono le grandi statue acroteriali che ornavano, alloggiate su alti basi dipinte, il columen del tetto. Del gruppo, in origine formato da dodici statue, si conservano più o meno frammentarie: Apollo, Eracle (acefalo), Latona con in braccio il piccolo Apollo, e Hermes (solo la testa). Le statue, che illustravano episodi legati alla vita di Apollo Pizio, si ergevano a una considerevole altezza, disposte secondo un unico lato di visione, corrispondente al lato su cui correva la strada processionale di accesso al santuario. I moduli adottati si rifanno allo ionismo, ma l’autore si pensa sia l’unico artista etrusco conosciuto, Vulca di Veio, che secondo la tradizione fu chiamato a Roma da Tarquinio il Superbo per realizzare la statua di culto del tempio di Giove Capitolino.