La decisione di dichiarare guerra a Cartagine non fu cosa scontata. Era chiaro a tutti che un’eventuale guerra avrebbe mutato radicalmente la natura della politica estera romana. I nemici, poi, erano superiori culturalmente e militarmente rispetto ai nemici galli e sanniti avuti fino ad allora da Roma, che si avvaleva del fatto di difendersi o difendere i propri alleati: l’alleanza con Messina avrebbe quindi permesso loro di “entrare” nelle questioni politiche siciliane. Un altro problema che si presentava erano i tempi di un eventuale scontro: i soldati (contadini che alternavano attività agricole ad attività militari) sarebbero stati impegnati a lungo lontano da casa e in ambienti poco familiari come il mare: questi fattori erano pressoché inesistenti a Cartagine, che, al contrario, aveva un esercito composto in prevalenza da truppe mercenarie. Stesso discorso in campo economico, dove la sconfitta di Cartagine avrebbe significato l’eredità di un impero commerciale con i suoi traffici e commerci.
Tra i vari tentativi, si cercò anche di portare la guerra direttamente sul suolo africano, al fine di bloccare i rifornimenti via mare alle città e agli eserciti e alle flotte in Sicilia, ma il corpo di sbarco romano fu annientato (255 a.C.) e la strategia fu abbandonata. Tornando a puntare sulla flotta, nel 241 a.C. i Romani ottennero una grande vittoria nella decisiva battaglia delle isole Egadi: nel trattato di pace stipulato subito dopo i Cartaginesi cedevano la Sicilia (la stessa sorte toccherà qualche anno più tardi alla Sardegna).
Le prime province. La Sicilia e la Sardegna, al contrario, furono gestite da Roma in modo molto diverso: una differenza che dimostrò come davvero la Prima Guerra Punica avesse rappresentato una rottura con il passato. Gli abitanti di Sicilia e Sardegna, infatti, non furono considerati alleati, sia pure su un livello di inferiorità, ma sudditi, e pertanto erano assoggettati al governo di un magistrato romano, che rappresentava la suprema autorità presente sulle due isole. A differenza degli alleati italici, poi, essi erano tenuti al versamento di un tributo fissato dallo Stato romano. Normalmente il magistrato inviato a governare questi nuovi territori era un ex console o un ex pretore che alla scadenza del proprio incarico a Roma si vedeva prorogato il mandato in qualità di proconsole o propretore. Poiché l’incarico affidato ad un magistrato si definiva in latino provincia, questo termine passò ben presto ad indicare il territorio governato dal magistrato stesso. Da quel momento in poi, la creazione di nuove province fu uno degli strumenti più usati dai Romani per amministrare i territori conquistati.
L’espansione romana verso nord. Come già accennato agli inizi dell’articolo, una parte dell’aristocrazia romana si opponeva alla decisione di dichiarare guerra a Cartagine: si tratta, nello specifico, non di una politica contraria alla guerra (al di là dei risvolti), bensì di una strategia improntata sempre sulle conquiste. Infatti questi gruppi politici vedevano nel controllo della terraferma una forma di conquista più tradizionale, che avvantaggiava in primo luogo i piccoli e i medi proprietari terrieri, da sempre componenti maggioritarie della società e dell’esercito romano. Quindi essi non furono scontentati, e nel periodo immediatamente seguente alla fine della Prima Guerra Punica, ritroviamo Roma impegnata in una serie di campagne militari contro i Galli della pianura padana (non appartenente geograficamente all’Italia di allora, peninsulare), che culmineranno nel 222 a.C. con l’annessione di tali territori, subito suddivisi in lotti assegnati a cittadini romani e latini e nei quali verranno create colonie come Piacenza e Cremona. L’avanzata romana non si arrestò infine alla pianura padana ma anche al litorale adriatico orientale, nell’Illiria, infestato dalla pirateria.
[X]