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La leggenda del cristiano Seneca

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È risaputo che l’antica Roma non abbia eccelso per la filosofia. Ad eccezione di poche personalità, come Lucrezio, Cicerone e Seneca, non vi sono altri grandi esempi di impegno filosofico, soprattutto se si pone a confronto il mondo romano con quello greco. Nella triade romana sopra citata, Lucrezio si distingue per la sua propensione verso la scienza, Cicerone per il suo impegno nel campo politico, Seneca per una costante riflessione filosofica che non perde di vista la finalità politica, se si pensa all’intento educativo (poi venuto meno) nei confronti dell’imperatore Nerone.

Ma proprio lo studio del pensiero del filosofo di Cordoba, offre degli spunti originali al punto da non considerare più questo personaggio come un semplice pensatore pagano. Le opere di Seneca, infatti, sono spesso e a ragione accostate al cristianesimo. Non è un caso che ci sia pervenuto un epistolario, costituito da quattordici lettere, che ha come autori  lo stesso Seneca e niente poco di meno San Paolo, suo contemporaneo. Il carteggio (che non presenta profonde argomentazioni filosofiche come ci si potrebbe aspettare) è considerato un apocrifo del III-IV secolo, espressione di una sensibilità che non ci ha messo molto a fare del filosofo uno dei primi cristiani, immaginando una sua conversione proprio ad opera dell’apostolo delle genti!

Sicuramente Seneca non fu cristiano e, probabilmente, non ebbe modo di incontrare Paolo, ma da dove nasce questa leggenda? Si pensi a quanto si legge in De providentia II, 1-7, dove il filosofo si pone una delle domande che da sempre attanagliano l’uomo: perché il male colpisce i buoni? E Seneca, da buon stoico qual è, afferma che  le avversità non sono una punizione, bensì una prova, un esercizio perché anche la virtù deve essere allenata, altrimenti rischia di infiacchirsi. Il superamento delle sfide quotidiane tempra l’animo dell’uomo virtuoso e lo conduce alla vera felicità. E Gesù di Nazareth non aveva forse detto: «Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa. Stretta invece è la porta ed angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7, 13-14)?.

Ancora, tra le pagine più note della produzione senechiana,  vi è quella sull’esame di coscienza quotidiano fatto prima di andare a dormire (De ira 3, 36): «Faceva questo Sestio, quando alla fine della giornata, dopo essersi ritirato per il riposo notturno, interrogava il suo animo: “Quale tuo male hai guarito oggi? A quale vizio ti sei opposto? In quale parte sei migliore?”. Cesserà e sarà più moderata l’ira che saprà di doversi presentare ogni giorno davanti al giudice. […] Quando il lume viene portato via dalla vista e mia moglie che già conosce le mie abitudini tace, esamino tutta la mia giornata e misuro le mie azioni e le mie parole; non nascondo nulla a me stesso, non trascuro niente. […] Il buono gradisce essere ammonito, il peggiore sopporta aspramente chi lo corregge». Queste parole fanno di Seneca un importante predecessore del sacramento cristiano della Confessione o, per lo meno, della buona pratica di analizzare il proprio operato quotidiano nella preghiera offrendo a Dio il bene compiuto e chiedendo perdono del male arrecato ad altri e a se stessi.

La stessa nozione di Dio in Seneca è da prendere in considerazione ai fini della nostra argomentazione. In Naturales Quaestiones, Praef. 13 si legge: «Quid est deus? Mens universi. Quid est deus? Quod vides totum et quod non vides totum. Sic demum magnitudo illi sua redditur, qua nihil maius cogitari potest, si solus est omnia, si opus suum et intra et extra tenet» («Che cosa è Dio? La mente dell’universo. Che cosa è Dio? Quello che tu vedi nella sua totalità e quello che nella sua totalità tu non vedi. Così infatti a lui viene restituita la sua grandezza, di cui non si può pensare nulla di più grande, se egli da solo è tutto, se abbraccia la sua opera sia dall’interno che dall’esterno»). Si può, dunque, notare che la concezione stoica del Logos che regge l’universo non è tanto diversa da quella ebraico-cristiana.

Molto profonda è poi la riflessione di Seneca sull’amicizia. Il filosofo afferma chiaramente «si vis amari, ama» (Ep. IX, 6), ovvero «se vuoi essere amato, ama». L’amicizia, infatti, non deve tendere all’utile, non deve essere dettata da fini utilitaristici: ci si fa un amico «per avere qualcuno per il quale possa morire, qualcuno da seguire in esilio, alla cui morte io mi possa opporre e sacrificarmi per evitarla» (Ep. IX, 10). Non ci stupiremmo se trovassimo tali parole nel Nuovo Testamento!

Si prenda, poi, in considerazione questa pagina della produzione di Seneca, tanto bella quanto moderna: nell’Epistola XLVII, infatti, Seneca riflette sulla questione della schiavitù e sull’accogliere nella propria casa queste persone da molti ritenute “inferiori”. Il filosofo, invece, afferma con energia che loro sono prima di tutto uomini, poi compagni di vita (contubernales), poi umili amici (humiles amici) e, infine, «compagni di schiavitù [conservi], se si pensa all’uguale potere che ha la sorte sugli uni e sugli altri [tanto sui padroni quanto sui servi]». Si tratta di un’affermazione straordinaria, quasi impensabile per il I d.C., ad eccezione del contesto cristiano. Gli schiavi sono in tutto e per tutto uguali ai loro padroni semplicemente perché sono uomini! Né bisogna sottovalutare che, di fronte alla morte, non c’è alcuna differenza tra ricchi e poveri. Lo stesso Gesù, in Mt 6, 19-21, invita a non fare tesori sulla terra ma ad accumularli in cielo. E non si dimentichi quanto dice San Paolo in Gal 3, 28: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Insomma si può affermare che la leggenda dell’adesione al cristianesimo da parte di Seneca non era poi così infondata. Tuttavia, saremmo in errore se considerassimo vera la leggenda: Seneca era uno stoico, non un cristiano, e la stessa scelta di suicidarsi basterebbe a dimostrare che egli non sia stato un seguace del Cristo. Sono, comunque, suggestivi i legami tra il suo pensiero e quello cristiano e, al di là di questo, i suoi insegnamenti continuano ad essere utili ai giorni nostri. In conclusione è bene riportare le parole di Concetto Marchesi su tale questione: «Fra la dottrina di Seneca e la predicazione di san Paolo – suo contemporaneo – è un abisso: per Seneca l’uomo redime se stesso con l’opera della ragione, per san Paolo si lascia redimere da Dio nell’abbandono della fede; nel cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dottrina di Seneca l’uomo è il salvatore di se stesso; là il miracolo scende dal cielo verso l’umanità, qua sale dall’anima umana verso il cielo».

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