I Celti visti dai Greci. Dei Celti parlano molte fonti greche e latine che nella maggior parte dei casi concordano nel descriverli come una popolazione bellicosa dai caratteri tipicamente barbari quali – per citare i principali – costumi pittoreschi, capigliatura lunga e incolta, alta statura, aspetto temibile, irascibilità e smodatezza nel bere vino. Fra i primi a fare cenno di queste popolazioni vi è lo storico greco Erodoto (V secolo a.C.) che parlando delle regioni danubiane ne indica l’origine in quella che sarà la Gallia; nel IV secolo Platone ne parla come un popolo dedito alla guerra e amante del vino, mentre Aristotele accenna al loro valore bellico ma anche alla loro scarsa intelligenza. Timeo di Tauromenio (356-260 a.C.) fa discendere i Celti (da lui chiamati come Galati) da Galate, figlio del ciclope Polifemo, alimentando gli stereotipi e i timori correnti su queste popolazioni, che già il poeta Callimaco paragonava ai mitici Titani e che dovevano rappresentare, al di là del mito, una perenne minaccia per le città greche della costa dell’Asia Minore. Lo storico Polibio (II secolo a.C.) così descrive i Celti che si erano stanziati nella Gallia Cisalpina (area padana) dopo avervi scacciato gli Etruschi:
«Abitavano in villaggi sprovvisti di mura, ed erano privi di ogni altra fortificazione. Poiché dormivano su dei pagliericci e si nutrivano di carne e poiché inoltre non si occupavano di niente altro se non dell’arte della guerra e dell’agricoltura, conducevano una vita semplice. Altre scienze e altre tecniche, poi, erano per loro del tutto sconosciute. Ognuno di loro possedeva come unica ricchezza bestiame e oro, perché solo questi beni si possono trasportare facilmente ovunque e in qualunque circostanza, e si possono traslocare secondo i propri desideri. Si impegnavano moltissimo nel crearsi un seguito, perché presso di loro l’uomo più potente e più temibile era colui che sembrava poter disporre di un grandissimo numero di servitori e di persone a lui legate.»
L’aspetto fisico dei Celti è descritto da Diodoro Siculo (I secolo a.C.) con particolare insistenza sui caratteri stravaganti o pittoreschi dell’acconciatura e delle vesti. Questa descrizione concorre a disegnare un’immagine tipica del barbaro: l’uso di capigliature lunghe e incolte e dei pantaloni, o braghe.
«I Galli sono di taglia grande, la loro carne è molle e bianca; i capelli sono biondi non solo di natura, ma si industriano ancora a schiarire la tonalità naturale di questo colore lavandoli continuamente con l’acqua di calce. Li rialzano dalla fronte verso la sommità del capo e verso la nuca […] con queste operazioni i loro capelli si ispessiscono al punto da somigliare alla criniera dei cavalli. Alcuni si radono la barba, altri la lasciano crescere con moderazione; i nobili conservano nude le guance ma portano dei baffi lunghi e pendenti al punto che coprono la loro bocca. […] Si vestono con abiti stravaganti, delle tuniche colorate dove si mescolano tutti i colori e dei pantaloni che chiamano braghe. Vi agganciano sopra dei sai rigati di stoffa, a pelo lungo di inverno, e liscia d’estate, a fitti quadrettini colorati di tutte le gradazioni»
Anche Strabone (64 a.C.-21 d.C.), nella parte del suo trattato di geografia dedicato alla Gallia, descrive più volte i costumi dei Celti (da lui chiamati Galli o Galati), insistendo sui tratti barbarici che possono più colpire l’immaginazione o destare curiosità. Nell’abbigliamento è considerato tipicamente barbaro l’amore per i monili d’oro, mentre nelle abitudini si insiste sugli aspetti considerati più incivili, quali i sacrifici umani o i crudeli trofei di guerra.
«Alla grande semplicità ed esuberanza dei Galati si sommano l’incoscienza, la vanteria e l’amore per gli ornamenti: recano addosso infatti molto oro, con cerchi intorno al collo e monili alle braccia e alle mani, e quelli che ricoprono delle cariche portano vesti colorate e ricamate con oro. Per questa loro leggerezza di spirito li puoi scoprire insopportabili quando vincono e stupiti quando vengono sconfitti. All’incoscienza si accompagna un tratto barbarico e incivile, vale a dire l’appendere, al ritorno dalla battaglia, le teste dei nemici al collo dei cavalli, e attaccarle per ornamento ai portici delle case […] le teste di uomini illustri, poi, conservate con l’olio di cedro, le mostravano agli ospiti e non acconsentivano al riscatto, neppure a peso d’oro. I Romani li fecero desistere anche da questo, così come dalle pratiche di sacrificio e divinazione contrarie alle nostre norme, come colpire l’uomo destinato al sacrificio alla schiena con la spada e trarre auspici dalle sue convulsioni.»
La Gallia Transalpina si estendeva al di là delle Alpi nel territorio degli odierni Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera e Germania (quest’ultima fino all’ovest del fiume Reno). Essa era suddivisa in Gallia Narbonensis e Gallia Comata, che si distinguevano nettamente per il diverso grado di romanizzazione. La prima comprendeva la Provenza e la Linguadoca odierne e prendeva il nome dalla città di Narbo Martius (attuale Narbonne), prima colonia romana al di fuori dell’Italia; era detta Provincia, per antonomasia, o Gallia Togata (dal nome dell’abito che distingueva i cittadini romani, la toga appunto), ed era divenuta provincia romana nel 123-121 a.C., quando Roma intervenne per difendere la colonia greca di Massalia (attuale Marsiglia), sua antica alleata, dalla minaccia di una colazione celtica. La Gallia Comata, invece, così chiamata dalle lunghe e incolte chiome dei Galli, comprendeva la Gallia ancora libera, divisa in Aquitania, Belgica e Celtica, e abitata dalle popolazioni che nel secolo successivo sarebbero state sottomesse da Giulio Cesare nel corso delle sue campagne militari (Elvezi, Arverni, Sequani, Edui, ecc.).
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