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La congiura di Teofano e Giovanni Zimisce contro l’imperatore Niceforo II Foca

969: Costantinopoli: nella notte tra il 10 e l’11 dicembre avviene la congiura che spodesta ed elimina l’imperatore Niceforo II Foca – secondo marito dell’imperatrice Teofano – e porta al trono imperiale Giovanni Zimisce, amante di lei.

La basilissa Teofano fu la principale protagonista della deposizione del suo secondo marito Niceforo II Foca. Ella fece in modo che il domestico d’Oriente Giovanni Zimisce, giovane collaboratore dell’imperatore nonché suo amante, venisse richiamato a Costantinopoli con il pretesto di poter meglio affrontare la minaccia russa e bulgara, in realtà per favorirne l’ascesa a discapito del marito. Niceforo accettò solo a condizione che Giovanni ponesse il suo quartiere generale sulla sponda asiatica del Bosforo e che potesse attraversare quel braccio di mare solo dietro l’emissione di un lasciapassare rilasciato direttamente da lui. Giovanni, però, grazie a Teofano e all’appoggio di una consistente parte dell’aristocrazia e della classe dirigente bizantina riuscì invece ad entrare nella capitale all’insaputa dell’imperatore. Nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 969 un gruppo di armati, guidati dallo stesso Giovanni, penetrarono nella camera da letto dell’imperatore e l’uccisero e fu probabilmente Giovanni a dare il colpo di grazia mentre Niceforo, implorante, si affidava all’intercessione della Vergine Maria: la sua morte giunse solo dopo una lunga e sofferta agonia, dato che il basileus fu colpito più volte, sfigurato e orribilmente mutilato. Infine i congiurati gettarono i suoi resti dalla finestra del palazzo imperiale. Immediatamente dopo i partigiani di Giovanni percorsero in lungo e in largo le strade della capitale urlando: “Giovanni, Augusto e imperatore dei Romani!”. Basilio Lecapeno, eunuco, generale e senatore, allo scopo di evitare tumulti, istituì il coprifuoco per tutto il giorno seguente. Questo cruento golpe non suscitò particolari reazioni nella capitale, forse sinonimo della scarsa popolarità che accompagnava il defunto imperatore. In ogni caso il corpo di Niceforo II Foca fu ricomposto e traslato dignitosamente ai Santi Apostoli dove venne seppellito come imperatore e con la liturgia dovuta a un basileus.

Di seguito il racconto nel dettaglio di Charles Diehl, tratto dalla sua opera “Figure Bizantine”, a proposito della congiura di Giovanni Zimisce contro Niceforo II.

«Niceforo aveva un nipote, Giovanni Zimisce. Era un uomo di quarantacinque anni, non alto ma snello e molto elegante. Aveva il colorito chiaro, gli occhi azzurri, i capelli biondo dorati che gli incorniciavano il viso, la barba rossiccia, il naso bello e sottile, lo sguardo ardito di chi non teme nulla e non si abbassa davanti a nessuno. Forte, capace, agile, generoso, perfino munifico e con qualche tratto da gaudente che non guastava, era davvero straordinariamente affascinante. Piacque naturalmente a Teofano che trascinava la sua vita in una condizione di noia mortale. Ecco allora come la passione la portò al delitto. Zimisce era ambizioso e oltretutto molto irritato perché a causa di un incidente di guerra era stato destituito dall’imperatore della sua carica di domestico delle Scole d’Oriente e invitato a ritirarsi nelle sue terre. Ora non pensava che a vendicarsi di un’offesa che giudicava immeritata. Da parte sua, Teofano era più che stufa di Niceforo: all’intesa di un tempo erano subentrati rancori e sospetti. L’imperatrice fingeva addirittura di temere che il marito mirasse alla vita dei suoi figli, ma la verità era che non sopportava assolutamente più di essere separata dall’amante. Sembra che Zimisce sia stato in realtà il grande, se non l’unico vero amore della sua vita. Fu questo stato di cose che la portò a concepire a poco a poco l’idea di un delitto spaventoso. Niceforo, tornato dalla Siria all’inizio del 969, aveva cominciato ad avere cupi presentimenti e a immaginare intorno a sé complotti tramati nell’ombra. La morte del vecchio padre, il cesare Barda Foca, aveva accresciuto ancora la sua tristezza. Ma, nonostante tutto, continuava ad amare Teofano. Lei, perfidamente, usò questa sua influenza per far richiamare Zimisce a corte. Fece presente all’imperatore quanto fosse increscioso privarsi dei servigi di un uomo simile, e per allontanare dalla mente di Niceforo i sospetti che avrebbe potuto svegliare una sua simpatia troppo manifesta per Giovanni, molto astutamente propose di farlo sposare con una delle sue parenti. Il basileus cedette come sempre al desiderio della moglie. Era quello che lei si aspettava. Giovanni riapparve a Costantinopoli: per merito delle complicità abilmente manovrate da Teofano nel suo entourage, i due amanti si rividero nello stesso palazzo senza che Niceforo dubitasse di nulla, e si accordarono sui preparativi del complotto. Si trattava nientedimeno che dell’assassinio del basileus. Giovanni trovò facilmente dei complici tra i generali malcontenti; molti furono i colloqui tra i congiurati, fra Zimisce e l’imperatrice. Alla fine, grazie alle connivenze nel gineceo, alcuni uomini vennero introdotti a palazzo e nascosti negli appartamenti dell’Augusta. Era l’inizio di dicembre, racconta Leone Diacono, che ci ha lasciato una descrizione impressionante del dramma. Il delitto era stato fissato per la notte tra il 10 e l’11. Il giorno prima, nascosti sotto abiti femminili, i congiurati erano penetrati nel Sacro Palazzo con l’aiuto di Teofano. L’imperatore, che aveva ricevuto un avvertimento anonimo, ordinò a uno dei suoi ufficiali di far perquisire gli appartamenti delle donne; ma sia che la ricerca fatta fosse superficiale, sia che non si volesse veramente trovare qualcosa, non si scoprì un bel niente. Nel frattempo si era fatto notte: per colpire si aspettava soltanto Zimisce. I congiurati furono presi dal timore: e se l’imperatore si fosse chiuso in camera, se fosse stato necessario forzare la sua porta, se si fosse svegliato per il rumore, non sarebbe forse fallito tutto? Teofano, con un sangue freddo terrorizzante, si incaricò di rimuovere l’ostacolo. Verso sera andò a trovare Niceforo nelle sue stanze e gli parlò con molta amicizia; poi, col pretesto di recarsi a salutare certe giovani donne bulgare in visita a palazzo, uscì dicendo che sarebbe tornata dopo pochi minuti e pregò il marito di lasciare aperta la sua porta. Ci avrebbe pensato lei, tornando, a richiuderla. Niceforo le disse di sì e poi, rimasto solo, pregò un poco e si addormentò. Erano circa le undici di sera. Fuori nevicava e sul Bosforo soffiava vento di tempesta. Zimisce arrivò con una barchetta a remi sul greto deserto che si stendeva sotto il muraglione del palazzo imperiale del Bucoleon. Per mezzo di un paniere legato a una corda fu issato fino al gineceo e subito i congiurati con il loro capo in testa penetrarono nella stanza del sovrano. A quel punto ci fu un attimo di sgomento: il letto era vuoto. Ma un eunuco del gineceo, al corrente delle abitudini di Niceforo, mostrò ai congiurati il basileus che giaceva per terra, in un angolo, sulla sua pelle di pantera. Quelli gli si lanciano furiosamente addosso. Al rumore Foca si sveglia, si alza. Uno dei congiurati, con un fendente poderoso gli spacca la testa dal sommo del capo all’arcata sopraccigliare. Tutto sanguinante il disgraziato urla: «Madre di Dio, aiuto!» Gli assassini non gli danno retta, lo trascinano ai piedi di Zimisce che lo insulta volgarmente e con un gesto brutale gli strappa la barba; sull’esempio del capo tutti si accaniscono sul poveraccio che rantola, mezzo morto. Alla fine Giovanni lo rovescia con un calcio, snuda la spada e gli scocca un colpo tremendo sul cranio: un altro assassino lo finisce. L’imperatore muore, in un lago di sangue. Quando i soldati della guardia finalmente accorrono al baccano della lotta, è ormai troppo tardi. Viene loro mostrata a una finestra, tra due torce, la testa mozza e sanguinante del sovrano. Questo tremendo spettacolo calma immediatamente ogni loro velleità di resistenza. Il popolo fa come l’imperatrice: si getta nelle braccia di Zemisce e lo acclama imperatore.»

Le rispettive sorti dei due giovani amanti, il neo imperatore Giovanni e l’imperatrice Teofano, furono molto diverse: mentre il primo regnò a nome della dinastia macedone e proseguì incontrastato nel rafforzamento dell’Impero sui vari fronti, la seconda venne esclusa – sedotta e abbandonata – dal suo amante, che la fece relegare prima in esilio su un’isola del Mar di Marmara e poi – dopo un’inaspettata fuga e un improvviso ritorno a Costantinopoli – in un monastero dell’Armenia, dove passò il resto dei suoi giorni.

«Teofano, che aveva disposto tutto e quasi condotto per mano gli assassini, calcolava di trarre vantaggio da quel delitto. Ma qualche volta la storia ha una sua morale: la basilissa ne fece presto l’esperienza. Una volta ancora il patriarca Polieutto dimostrò la sua energia irriducibile. Era apertamente in lotta con il basileus defunto; eppure, quando Giovanni si presentò alla porte di Santa Sofia per cingere nella Grande Chiesa la corona imperiale il prelato, inflessibile, gliene negò l’accesso perché lordo del sangue di Foca, suo parente e signore; e gli chiarì che non avrebbe potuto penetrare sotto le sacre volte fino a che gli assassini non fossero stati puniti e Teofano scacciata da palazzo. Tra il trono e l’amante, Zimisce non ebbe un attimo d’esitazione. Negò sfrontatamente la propria partecipazione al delitto e per meglio discolparsi fece ciò che Polieutto chiedeva: denunciò i suoi complici e sacrificò Teofano. Lei aveva sognato di sposare l’uomo che amava, di dividere con lui quel potere che le era così caro; fu lo stesso suo amante che ne decise la perdita. La spedì in esilio alle isole dei Principi, in uno dei monasteri di Proti.»

«Ma Teofano, energica com’era e sentendosi sempre attraente – aveva solo ventinove anni – non volle rassegnarsi alla fortuna avversa. Qualche mese più tardi riuscì a evadere dalla sua prigione e corse a rifugiarsi nell’asilo di Santa Sofia. Contava ancora sull’amore dell’amante? Sperava forse che appianate le prime difficoltà Zimisce, riconoscente, se la sarebbe ripresa? Si illudeva di poterlo riconquistare con uno sguardo dei suoi occhi bellissimi? È probabile. Ma il potentissimo ministro che dirigeva la politica del nuovo regno, il parakoimomenos Basilio, frenò il tentativo audace dell’affascinante sovrana. Senza rispetto per la santità del luogo, la fece trascinare fuori dalla Grande Chiesa e decise di inviarla in Armenia, un esilio ben più lontano. Tutto ciò che lei riuscì a ottenere, prima della sua partenza, fu di incontrare un’ultima volta l’uomo per il quale aveva sacrificato tutto e che ora l’abbandonava. Questo incontro finale, al quale il parakoimomenos prese la precauzione di assistere come terza persona, fu, pare, straordinariamente violento. Teofano insultò crudelmente Zimisce, poi in un parossismo di rabbia si lanciò a pugni chiusi sul ministro. Si dovette portarla via a forza dalla sala dell’udienza. La sua vita era finita. Cosa avvenne di lei in quel triste esilio? Quanto dovette soffrire nel lontano monastero in cui si trascinava la sua vita, lontano dalle raffinatezze del Sacro Palazzo, piena di rancore per le sue speranze deluse e di rimpianto per il suo potere perduto? Non lo sappiamo. In ogni caso, se colpevole, espiò duramente il suo crimine. Languì per sei anni in solitudine, fino alla morte di Zimisce. Allora, nel 976, fu richiamata a Costantinopoli presso i suoi figli, divenuti unici detentori del potere supremo. Ma, sia che il suo orgoglio fosse a pezzi e la sua ambizione spenta, sia che piuttosto, il parakoimomenos Basilio ancora onnipotente avesse posto questa condizione al suo ritorno, ella non ebbe più alcun ruolo nello Stato. Morì oscuramente, a palazzo, non si sa neanche quando.»

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