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Il vino, la lana, il silenzio. / Essere donna nella Roma arcaica.

Se Roma era una “città di padri”, che ruolo toccava alla donna? Vediamo in che modo le norme e la mentalità dei Romani, degli uomini romani, disciplinavano il comportamento femminile.

Il ratto delle Sabine. Secondo uno dei racconti più noti della tradizione romana, quando la città venne fondata non c’erano donne ad abitarla. Romolo aveva cercato di risolvere l’incresciosa situazione inviando ambasciate nelle città vicine, richiedendo che le ragazze in età da marito sposassero i giovani romani. A quanto pare, queste ambasciate non ebbero il minimo successo, e fu allora necessario ricorrere all’inganno. Romolo organizzò una festa in grande stile alla quale invitò tutti i popoli confinanti e, giunto il giorno fatidico, a un suo segnale i Romani si lanciarono sulle donne e le trascinarono via; seguirono una serie di matrimoni riparatori, per dare una veste legale ad unioni nate effettivamente dalla violenza. La leggenda del ‘Ratto delle Sabine’, così chiamate perché le donne rapite appartenevano per lo più al popolo sabino) è piuttosto singolare, ma veniamo ad alcune considerazioni: le donne erano sin dalle origini delle straniere, e allo stesso tempo erano indispensabili per la vita della città. La loro vita era piuttosto marginale nell’ambito cittadino, e, da parte della città, essa si occupò di stabilire non tanto quello che potevano fare, piuttosto quello che non potevano fare.

Il vino e l’adulterio. Le cose che le donne non potevano fare, nella Roma più antica, erano principalmente due: commettere adulterio e sottrarre le chiavi della cantina per andare a bere il vino. In caso di violazione la pena prevista era addirittura la condanna a morte, che le veniva inflitta direttamente dal marito. Le norme venivano fatte risalire allo stesso Romolo, a testimoniare l’importanza ad esse attribuita. La prima cosa che potrebbe venire in mente – al lettore moderno – è come può essere messo sullo stesso piano dell’adulterio anche il (semplice) bere vino? Il fatto è che i Romani vedevano strettamente correlati questi due “reati”, di cui uno era la conseguenza dell’altro: la consumazione del vino era vista come causa della propensione all’adulterio. Quindi il reato alla fine era solo uno, ossia l’adulterio.

L’identità della discendenza. “Adulterio” deriva dal latino adulterium, che deriva a sua volta da adulterare, cioè “rendere qualcosa diverso da prima” attraverso l’aggiunta di elementi estranei: lo stesso senso che oggi ha in italiano l’espressione “adulterare il vino”. In latino il verbo adulterare ha quasi sempre un soggetto maschile: dunque, quando vi era un adulterio, era l’uomo che “adulterava” la donna, cioè che immette in lei un elemento estraneo. Perché la colpa è “esclusivamente” femminile? La donna e l’utero femminile svolgono – nella cultura romana alla pari delle altre culture antiche – un ruolo fondamentale: attraverso di loro passa il sangue del gruppo familiare (il seme maschile, secondo le teorie biologiche antiche, era una variante del sangue), visto come la sua identità più profonda. Il compito della donna era quindi di assicurare la trasmissione che doveva avvenire senza alcuna mescolazione di sangue, che in caso positivo avrebbe determinato una situazione di incertezza sulla paternità dei nascituri. Il passaggio del patrimonio genetico (per usare un termine moderno) di padre in figlio doveva avvenire quindi senza contaminazioni, e dunque la donna non deve essere “adulterata”, ossia viziata dall’immissione nel suo corpo di elementi biologici estranei.

Custodire la casa, filare la lana. Ma le leggi sull’adulterio non erano le uniche stabilite da Romolo (o da chi per lui) per disciplinare il comportamento femminile. Un’altra regola era quella secondo cui le donne «non dovevano fare per i loro mariti nessun altro lavoro se non la filatura della lana». Sin dalle origini della cultura romana, la filatura della lana diventò così il compito più apprezzato della sposa perfetta, come si può notare anche dalle epigrafi funerarie che elogiavano le virtù di defunte di alto e basso rango. Prendendone una a caso, quella di una certa Turia, sappiamo che le sue virtù erano «pudicizia, sottomissione al marito, cordialità, disponibilità, assiduità alla lavorazione della lana, religiosità senza superstizione, trucco che a mala pena si notava, cura della persona, priva di eccessi». L’epigrafe di una donna di condizione sociale inferiore dice che fu dedita «alla lavorazione della lana, obbediente verso i superiori, pudica, frugale, casta, sempre vissuta in casa». Sembra chiaro, allora, che la filatura della lana aveva un valore altamente simbolico: la donna che vi si dedicava dimostrava di aderire al modello di comportamento della madre di famiglia virtuosa, casta, fedele al marito.

L’obbligo del silenzio. Il buon comportamento delle donne stava a cuore anche al successore di Romolo, Numa Pompilio, che non solo stabilì che fossero escluse da tutti gli affari pubblici, ma impose loro anche di non prendere la parola in assenza del marito, “neppure per le cose necessarie”. Un divieto osservato al punto tale che, quando una volta una donna osò aprire bocca nel Foro – luogo pubblico per eccellenza – il Senato mandò a consultare l’oracolo, temendo che un simile prodigio preannunciasse eventi disastrosi. Niente di strano, perciò, che Numa fosse ricordato anche per aver introdotto il culto della dea Tacita: nome piuttosto inquietante, che non lascia molti dubbi sulle virtù che dovevano possedere le donne che ne celebravano il culto.

Il fatto è che nel mondo antico parlare di fronte ad estranei equivaleva, in un certo senso, a denudarsi alla loro presenza. La parola rivelava infatti l’indole, la natura e il modo di essere una donna, e la donna doveva esserne gelosa alla pari del proprio corpo. Perfetta era perciò la donna che “non cade in nessun discorso”, sia perché non parlava, sia perché – cosa altrettanto importante – nessuno parlava di lei: come ricorda un poeta, la sposa ideale è che quella che “quando esce di casa tappa la bocca a tutti, perché nessuno trovi motivo per sparlare di lei”.

Una cultura di uomini per uomini. Fino ad ora si è scritto di una vera e propria consegna del silenzio, un obbligo di tacere che venne rispettato rigorosamente nella Roma antica, e spiega una situazione a dir poco paradossale:

“Per secoli le donne romane vissero, si sposarono, fecero figli, curarono le case e le famiglie, elaborarono pensieri, soffrirono e gioirono, eppure di tutto questo non è giunta alcuna traccia fino a noi. La quasi totalità dei testi che la cultura latina produsse, e da cui dipende la nostra conoscenza di quel mondo, furono infatti scritti da uomini e destinati alla fruizione di altri uomini. Furono gli uomini a stabilire le norme del buon comportamento femminile e ancora altri uomini ad elogiare le donne che vi si adeguavano o a biasimare quelle che le trasgredivano; ciò che le donne realmente sapevano, volevano, pensavano ci rimane per sempre irraggiungibile. Si tratta di una perdita irreparabile e che non riguarda solo la cultura latina, ma quasi tutta la storia medievale e moderna fino alle soglie dei nostri giorni.” [D. Puliga, storica]

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