Site icon Storia Romana e Bizantina

Il suicidio nel mondo romano e la sua “necessità” politica

Il termine suicidium, nonostante le apparenze, non esiste nel latino classico, che non prevede composti con sui-: la prima occorrenza attualmente nota è nel latino medievale. Divenne termine corrente nella trattatistica medica in lingua latina di età moderna, e fu quindi trasposto nelle diverse lingue nazionali. Ma la definizione del concetto di “suicidio” già impegnò i giuristi romani, che tentavano di distinguere le morti volontarie motivate dal timore della pena dalle morti volontarie che miravano a evitare le confische ai condannati.

Per la mentalità romana pagana, diversamente dal cristianesimo, il suicidio, in determinate circostanze e secondo alcune specifiche modalità, poteva essere ammesso, e anzi poteva rappresentare un gesto di estrema virtù. In primo luogo, il suicidio poteva essere giustificato di fronte a terribili mali fisici (qualcosa di analogo al concetto moderno di eutanasia): in questi casi, generalmente, ci si lasciava morire rifiutando il cibo. Esempi di questa tipologia, sono la morte di Attico, raccontata da Cornelio Nepote, e quella di Cornelio Rufo, nel racconto di Plinio il Giovane.

«[…] quando vide che i dolori crescevano di giorno in giorno e che c’erano anche accessi di febbre, mandò a chiamare il genero Agrippa e con lui Lucio Cornelio Balbo e Sesto Peduceo. Come vide che erano arrivati, si appoggiò su di un gomito e disse: “Non devo ricordare con molte parole quanta cura e diligenza ho messo in questa occasione nel difendere la mia salute: voi ne siete testimoni. Ora dopo avervi compiaciuto nel non tralasciare niente per guarire, mi resta da provvedere a me stesso. Non ho voluto che ignoraste la mia decisione di smettere di alimentare la malattia. Infatti in questi giorni con tutto il cibo che ho preso non ho fatto altro che prolungare la mia esistenza prolungando i dolori senza nessuna speranza di salvarmi. Vi chiedo di approvare la mia decisione e di non tentare inutilmente di distogliermene”. […] Dopo che per due giorni si astenne dal cibo, la febbre se ne andò e la malattia cominciò a declinare. Nondimeno tenne fede al suo proposito e quattro giorni dopo aver preso la sua decisione morì.» Cornelio Nepote, Vita di Attico.

La confidenza che una cultura come quella romana aveva con la morte piuttosto naturalmente individuò altri contesti, in cui il suicidio poteva divenire un gesto di significato sociale, inteso al bene della comunità. Già per la Grecia arcaica vi sono testimonianze di forme di suicidio imposte dalla società, come nel caso dell’Isola di Ceo, in cui le persone che superavano i sessant’anni avrebbero ricevuto l’ordine di togliersi la vita, perché ci fosse cibo sufficiente per gli altri. A Roma il suicidio rituale era quello della devotio, in cui il guerriero, spesso il capo militare stesso, si gettava nella mischia dei nemici, sicuro di trovarvi la morte (basti ricordare anche le morti eroiche Catilina e Spartaco), ma anche di favorire la vittoria del proprio esercito (exemplum consueto era quello di Decio Mure).

La morte di Publio Decio Mure, Peter Paul Rubens, 1617.

«In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: “Abbiamo bisogno dell’aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni.” […] Cintasi poi la toga con il cinto gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si gettò in mezzo ai nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con un aspetto ben più maestoso di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo per placare ogni ira degli déi e allontanare dai compagni la disfatta rovinosa, respingendola sui nemici. Fu per questo che il suo assalto seminò panico e terrore nelle prime file dei Latini, arrivando poi a contagiare l’intero esercito. Era evidentissimo che, dovunque si dirigesse in sella al suo cavallo, lì i nemici si ritraevano spaventati come fossero stati colpiti da una meteora letale. Ma quando poi cadde sommerso da una pioggia di frecce, da quel momento non ci furono più dubbi sullo sbandamento delle coorti latine che si diedero ovunque alla fuga, lasciando dietro di sé il deserto.» Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII 9

Per una fanciulla, non l’onore militare, ma la perdita violenta della castità poteva motivare il suicidio, come nel caso esemplare di Lucrezia, violata da Tarquinio: anche in questo caso il suicidio esprimeva l’estrema osservanza dei valori condivisi dalla società.

Sesto Tarquinio e Lucrezia, Tiziano.

«Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: “Tutto bene?” Lei gli risponde: “Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l’onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l’adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui.” Uno dopo l’altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull’autore di quell’azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l’intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: “Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!” Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre.» Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. I, capoverso 58

Al di fuori di circostanze straordinarie come quelle che motivavano la devotio, la vita del cittadino era considerata sacra e inviolabile: soltanto la dimostrazione del più grave delitto, come l’alto tradimento o l’omicidio di un consanguineo (parricidio), poteva condurre alla pena capitale. Ma se un delitto, pur gravissimo, come il parricidio aveva conseguenze che ricadevano soprattutto sulla sfera individuale, l’attentato alla res publica coinvolgeva, più o meno direttamente, la gens del condannato: oltre all’infamia e alla perdita di prestigio politico, erano possibili espropri e confische. Dal momento che, nei difficili anni della Tarda Repubblica e del Primo Impero, l’accusa di attentato alla res publica restava l’unico mezzo giuridico per colpire gli avversari politici affinché risultassero sconfitti, iniziò progressivamente ad aprirsi come alternativa quella del suicidio. Non mancò la ratifica istituzionale, dal momento che sotto il regno di Tiberio sappiamo come la legge concedesse ai suicidi il medesimo trattamento della morte naturale: venivano evitate la sentenza, la confisca dei beni e la negazione della sepoltura.

La morte di Seneca, Manuel Dominguez Santos

Tra i tanti suicidi, i più celebri della storia romana – tramandatici dalle fonti – sono quelli di età tardo-repubblicana (Marco Antonio e Cleopatra, Catone l’Uticense, Cassio e Bruto) e quelli del regno di Nerone, come le condanne emesse per le tentate congiure (come quella dei Pisoni, nella quale erano coinvolti anche Seneca e Lucano) o per semplice invidia o avversità personale. In quest’ultimo caso si colloca la morte di Petronio Arbiter, autore del celebre Satyricon, accusato da delatores corrotti per conto di Ofonio Tigellino, prefetto del pretorio di Nerone. Riportiamo, in conclusione, di seguito per la sua “originalità”, il racconto della sua sprezzante morte:

«In quei giorni l’imperatore era andato in Campania, e Petronio, che si era spinto anche lui fino a Cuma, veniva trattenuto là. A quel punto non sopportò altri indugi del timore e della speranza. Tuttavia, non licenziò precipitosamente la vita: si tagliò le vene e poi tornò a legarle a suo piacimento, parlando con gli amici, ma non di argomenti seri, né cercando la fama di uomo coraggioso. Non diceva né ascoltava niente sull’immortalità dell’anima, né altre sentenze filosofiche, ma solo canti leggeri e versi facili. Distribuì doni ad alcuni servi, frustate ad altri. Poi andò a banchetto e cedette al sonno in modo che la sua morte, per quanto coatta, fosse simile ad una casuale. Nel suo testamento, diversamente dalla maggior parte di quelli che morivano in quel momento, non adulò Nerone né Tigellino né nessun altro dei potenti, ma descrisse le scelleratezze dell’imperatore, col nome dei suoi amasi e delle sue amanti, e la singolarità delle sue perversioni sessuali: lo firmò e lo mandò a Nerone, e spezzò il sigillo, perché non venisse usato in seguito per rovinare altre persone.» Tacito, Annales, XVI, 19

[X]

Articoli correlati: La figura di Aiace, figlio di Telamone | Il Somnium Scipionis: vivremo ancora dopo la morte? | La strage servita / Il giudizio degli scrittori latini sulla spettacolarità della morte | La morte, i riti funebri e l’aldilà nel mondo romano

Exit mobile version