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Il sarcofago nell’arte romana di età imperiale (II-IV secolo d.C.)

L’utilizzo dei sarcofagi inizia ad aumentare dalla fine del I secolo d.C. in coincidenza del diffondersi della “moda” di inumare i corpi dei defunti piuttosto che cremarli. I prototipi artistici sembrano provenire dall’Asia Minore seppure con qualche sostanziale differenza: quelli romani erano lavorati su tre dei quattro lati, essendo il lato non-lavorato coperto dalla parete del sepolcro a cui veniva appoggiato, mentre quelli asiatici erano lavorati su tutti e quattro i lati ed essi erano tutti e quattro visibili, essendo posto il sarcofago al centro, all’interno di una camera sepolcrale.

Uno degli esemplari più antichi, il sarcofago del console Bellico Natale Tebaniano, conservato a Pisa, risale intorno ai primi anni del II secolo d.C.: questo presenta un motivo a festoni che fanno da cornice a scene mitologiche poste sulle superiorità di questi. L’elemento mitologico non ha precedenti nel gusto orientale ed è probabilmente di origine romana. La decorazione è molto sobria e classicista.


Al periodo di Adriano e Antonino Pio risale il sarcofago Amendola sulla via Appia che raffigura sulla cassa scene di combattimento contro i barbari: la scena più grande vede anche la presenza dei Romani vittoriosi, mentre nella sua piccola fascia superiore vi sono rappresentati esclusivamente barbari prigionieri; il tutto è coronato da quattro acroteri con maschere barbariche. Anche questo sarcofago era posto in una camera, ragione per cui la scena principale sta sul lato frontale della cassa. I combattenti sono disposti in monomachie, e insieme alla pateticità che essi esprimono si potrebbe dedurre (in via ipotetica) che di ispirazione siano state le scene di pitture provenienti da Pergamo che commemoravano le battaglie tra Attalidi e Galati. Un altro tratto caratteristico sta nel cavaliere romano centrale, che nell’atto di affrontare il nemico a cavallo, si copre il volto, il che potrebbe alludere anche qui ad un originale pergameno di II secolo a.C.: infatti il re Eumene II non partecipò alla campagna militare e fu sostituito dal fratello e futuro re Attalo II, non rappresentandosi in quello che era molto probabilmente la pittura celebrativa.


Il sarcofago del Portonaccio è uno dei più belli esempi di scultura privata della seconda metà del II secolo d.C., appartenuto ad un generale romano che fu impegnato nelle campagne di Marco Aurelio. La cassa reca sempre scene di combattimento tra Romani e barbari, ma questa volta si hanno ben quattro piani di rappresentazione disposti nel seguente modo: nei due piani superiori vi sono cavalieri romani con vexilla, in quelli più bassi fanti romani e sotto a tutto barbari travolti. A fare da cornice ai combattimenti vi sono, oltre i “soliti” acroteri con maschere barbariche, dei trofei con armi davanti al quale vi sono coppie di barbari prigionieri. Tra gli acroteri vi è un fregio di dimensioni minori, a rilievo più basso della grande scena, che ripercorre la vita del defunto (nascita, infanzia, nozze, deditio da parte di barbari). La composizione, a differenza del sarcofago Amendola, è qui invece strutturata in una complessa composizione su più registri che abbandona il ritmo semplice della monomachia, mantenendo unitario il tutto.


Nell’età di Caracalla (fine II – inizio III secolo) si ha un ritorno al modulo classicista oltre che all’emergere di nuovi temi. Tra questi vi è la diffusione del motivo della caccia al leone, come quello riportato sul sarcofago Mattei, che sembra essere stato di “ispirazione” imperiale, data la predilezione di Caracalla per la figura di Alessandro Magno. La scena del sarcofago Mattei è la seguente: un cavaliere è in procinto di scagliare una lancia contro un leone che si sta avventando contro un cacciatore armato di scudo e gladio caduto a terra, al cui fianco vi è un altro leone, questa volta abbattuto. Alle spalle del cacciatore vi è Virtus-Roma in abito amazzonico, che precede due figure in nudità eroica (forse i Dioscuri). Se vi è un ritorno classicista, esso presenta tuttavia una composizione affollata e serrata, ma la resa è solida e coerente (come da tradizione classica).


Appartenente al secondo venticinquennio del III secolo (230-240 d.C.), il sarcofago di Acilia è di tipo a lenos (contenitore di fermentazione dell’uva): questa tipologia presenta decorazioni su tutta la superficie e si affermerà per tutto il III secolo. Parte del sarcofago è andata persa (centro, retro e parte destra); la rappresentazione può ricostruirsi comunque nel seguente modo: due figure centrali fanno da perno all’intera scena, alla cui sinistra vi è una teoria di figure maschili barbate (tipo filosofo) e alla cui destra una di figure femminili (forse Muse). Il gruppo dei filosofi presenta un’eccezione: una delle figure barbate si rifà iconograficamente al Genius Senatus e indica il personaggio sull’estrema destra, identificato come Gordiano III (da altri come Nigriniano, figlio dell’imperatore Carino), che a differenza degli altri non è barbato e il cui volto è lavorato a parte – diversamente – rispetto a quello degli altri. Secondo la prima interpretazione, quindi, il sarcofago potrebbe essere dei genitori di Gordiano III. Tra le tante cose il sarcofago in questione presenta poi tracce di policromia, con contrasti di nero e oro. La tecnica si avvicina a caretteri orientali e non si potrebbe escludere pertanto l’importazione dall’Asia; è altresì possibile che lo stesso possa essere stato fabbricato da maestranze greco-asiatiche trasferite a Roma.


Il sarcofago Ludovisi è uno dei più famosi sarcofagi dell’arte romana, e proviene da una tomba presso la via Tiburtina. Si è conservato solo la cassa, mentre il coperchio – conservato a Magonza – è andato perduto. Sulla cassa vi è rappresentata una grandiosa scena di combattimento tra Romani e barbari (Goti?): la suddivisione spaziale è molto netta, infatti sui due livelli superiori vi sono i Romani che uccidono i barbari, mentre nei due livelli inferiori vi sono barbari o già morti o in procinto di cadere. Non vi è alcun duello ma anzi, sembra che a venire in contatto siano i due schieramenti con tutti i loro uomini. In tutta la scena confusa domina la figura centrale del cavaliere che guida i Romani all’attacco: si tratta di Ostiliano (o di suo fratello Erennio Etrusco, entrambi figli di Decio), identificabile grazie alla croce, simbolo di iniziazione mitraica, incisa sulla fronte. L’intera opera si basa su un complesso sistema di diagonali e perpendicolari; la plasticità delle figure risulta attenuata dall’uso del trapano, adoperato anche per la resa dei particolari. L’opera è attribuibile ad un maestro profondamente influenzato da tendenze attiche, ma di ambientamento romano.


Al di là della sua problematica attribuzione, il sarcofago di Plotino mostra chiaramente il mutamento dell’ideologia della classe senatoria nella seconda metà del III secolo d.C.. Privati del comando degli eserciti e del potere militare, i senatori si concentrarono – artisticamente parlando – su temi filosofici o che alludevano all’impegno intellettuale. Il defunto è rappresentato accomodato su di un trono e avente tra le mano un rotolo aperto, affiancato da due figure femminili (Muse?) e da due filosofi che guardano verso l’esterno. Tra il defunto e una delle figure femminili, sulla sinistra, vi è poi un personaggio maschile di profilo in secondo piano. Lo sfondo è costituito da un tendaggio (parapetasma). Sul lato posteriore vi è invece una scena di caccia al leone in bassissimo rilievo. L’espressione del protagonista mette in risalto astrazione e spiritualità, entrambe legate al neoplatonismo che andava diffondendosi nell’ambito della corte e dei circoli culturali.


Nel tardo III secolo non mancano rari esempi di sarcofagi con scene di argomento bucolico e pastorale (da intendersi come allusione all’aldilà): tra questi vi è il sarcofago di Giulio Achilleo, procuratore ducenario del Ludus Magnus (palestra dei gladiatori). Su un kyma ionico, ai lati della cassa, vi è scolpito un leone che sbrana un cerbiatto, mentre sulla fronte, in due registri, vi è raffigurata un’affollata scena campestre (con il alto una scena di corsa dei carri). Nella parte alta della fronte abbiamo un erote con una piccola falce accanto ad un piccolo edificio, mentre sulla destra alberi, cavalli, buoi e capre che pascolano; nella parte bassa vi è un gregge che pascola, guardato da due pastorelli, uno dei quali sta mungendo una capra. Vi sono state trovate tracce di policromia e doratura. L’opera sembra essere stata fatta negli anni precedenti il completamento delle mura aureliane (275 d.C.).


Nel sarcofago dell’annona, scolpito intorno al 280 d.C., ritroviamo il tendaggio di sfondo, sul cui piano principale si stagliano otto figure. I protagonisti del rilievo sono le due figure centrali in primo piano, due coniugi che celebrano la dextrarum iunctio: la datazione è stata possibile proprio grazie agli attributi degli sposi (toga contabulata e stile del ritratto per l’uomo, pettinatura simile alle mogli di Aureliano e Carino per la donna). Il gruppo centrale è completato dalla presenza simbolica di Giunone Pronuba e del Genius Senatus, collocati rispettivamente al centro della coppia e ai lati dell’uomo. Ai lati vi sono poi due gruppi di personificazione inerenti all’attività annonaria: Porto, con faro in mano, prua e onde ai piedi; Ostia (o Fortuna Annonaria), con corona turrita e con tessera annonaria e timone nelle mani; Fortuna Annonaria (o Abundantia), con cornucopia e timone; la provincia d’Africa, con spighe di grano e spoglie di elefante. Le allusioni al prefetto dell’annona possono essere legate sia alla carica ricoperta in vita dal defunto o a Flavio Arabiano, prefetto dell’annona sotto Aureliano. Lo stile è più vicino a quello del ventennio precedente, con un largo uso del trapano e una maggiore squadratura dei corpi e delle teste.


Il sarcofago di Elena, attribuito già dalla tradizione antica madre dell’imperatore Costantino, era collocato nel mausoleo ad duas lauros di Torpignattara. Le linee generali della composizione e dello stile, dopo un incendio e un restauro, sono rimaste sempre quelle. Il coperchio è a quattro spioventi e decorato con figure di genii e vittorie alate, con ghirlande sostenute da un amorino volante. Sulla cassa, nel numero di tre per i lati lunghi e due per i lati corti, sono raffigurati dei cavalieri romani con tunica corta ed elmo, e armati con la sola lancia (o con lancia e scudo) che trasportano barbari prigionieri, forse personificazioni di popoli sottomessi. La composizione è ritmata e ricorda molto quella della base della colonna di Antonino Pio. Sia per l’ispirazione classicista che per il materiale usato il sarcofago è di origine orientale.


Nella basilica costantiniana di S. Agnese, in una nicchia opposta all’entrata, vi era un monumento funerario, eretto tra il 337 e il 354, nel quale vi era posto il sarcofago di Costantina, una delle figlie di Costantino. Questo sarcofago è molto simile a quello di Elena. Sul coperchio presenta dei bordi ghirlandati; sui lati lunghi delle girali con al loro interno amorini vendemmianti, con animali e girali che avvolgono i tondi; sul profilo (lati corti) degli amorini in vendemmia. Dietro a queste rappresentazioni vi è certamente l’antica simbologia dionisiaca della vendemmia, che in questo caso ha un valore alquanto ambiguo a livello di significati, ma è comunque tipico di quegli anni che si figuravano come integrazione del passato classico e del presente cristiano. Lo stile del sarcofago ne permette la datazione intorno al 340 d.C., e conferma, con una resa tuttavia più semplificata, la tradizione orientale di questa tipologia scultoreo-funeraria.


Il sarcofago “dogmatico” deve il suo nome ai richiami delle decisioni dogmatiche del concilio di Nicea del 325 d.C. e fu rinvenuto nella basilica di San Paolo a Roma durante i rifacimenti ottocenteschi. La fronte è divisa in due parti, secondo un’usanza del IV secolo: in ciascun registro vi sono scolpite scene del Vecchio e del Nuovo Testamento; nel registro superiore vi è un clipeo centrale con il ritratto dei due defunti nel tipico abbraccio coniugale (braccio sinistro della donna su spalla dell’uomo e mano destra sul braccio sinistro). Gli episodi del registro superiore sono cinque: (da sinistra verso destra) la creazione dell’uomo, Adamo ed Eva vicino all’Albero del Peccato, i miracoli delle nozze di Canaan, della moltiplicazione dei pani e dei pesci e della resurrezione di Lazzaro. Nel registro inferiore, sempre nello stesso ordine di lettura, gli episodi sono sei: l’adorazione del Magi, la guarigione del cieco, Daniele fra i leoni, il profeta Abacuc, il rinnegamento di Pietro, la cattura di Pietro da parte dei soldati, la fonte fatta sgorgare da Pietro. Tutte le pettinature tranne quelle di Pietro e di Cristo ne consentono la datazione intorno al 330 d.C.; lo stile è tipico del periodo: figure tozze, squadrate e prive di compiacimenti decorativi.


La scultura classicistica cristiana culmina nel IV secolo con il sarcofago di Giunio Basso, praefectus urbi, scomparso nel 359 d.C.. Il coperchio, sopravvissuto in frammenti, doveva recare dei distici in onore del defunto e alcune scene che erano poste tra maschere che fungevano da acroteri angolari. Nella fronte le scene bibliche ed evangeliche sono inquadrate in nicchie su due ordini, inquadrate da architrave (alto) o timpani rettangolari o semicircolari (tipo conchiglia). Gli spazi tra i due ordini presentano degli agnelli piccoli in rilievo, mentre le colonne – tranne le centrali – presentano delle storie con putti vendemmianti. Ogni nicchia contiene due o tre personaggi, e potrebbe attenersi ad una simbologia e ad una tradizione diffusa per l’epoca. Da sinistra verso destra gli episodi sono: (in alto) sacrificio di Abramo, cattura di Pietro, Cristo in trono con personificazione del Cielo, cattura di Cristo, Pilato che medita; (in basso) Giobbe, Adamo ed Eva presso l’Albero, entrata di Cristo a Gerusalemme, Daniele tra i leoni, Paolo condotto al supplizio. Le figure sono ad altissimo rilievo e l’attenzione dello scultore all’esecuzione la si può notare sia nella sbozzatura delle teste che nei corpi levigati e quasi isolati. Sopravvive l’usanza di decorare il sarcofago con nicchie e colonne, lontana eredità artistica d’origine asiatica che fece la sua comparsa a Roma nel II secolo d.C. in ambito pittorico.

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