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Gli Argonauti

Si chiamano Argonauti i compagni di Giasone nella sua ricerca del Vello d’oro. Il nome d’Argonauti viene da quello della nave che portava gli eroi, l’Argo, e che significa «Rapido», ma ricorda anche quello del suo costruttore, Argo.

(GRC)«  Ἀρχόμενος σέο Φοῖβε παλαιγενέων κλέα φωτῶν
μνήσομαι οἳ Πόντοιο κατὰ στόμα καὶ διὰ πέτρας
Κυανέας βασιλῆος ἐφημοσύνῃ Πελίαο
χρύσειον μετὰ κῶας ἐύζυγον ἤλασαν Ἀργώ.
 »
(IT)« Da te sia l’inizio, Febo, a che io ricordi le gesta
degli eroi antichi che attraverso le bocche del Ponto
e le rupi Cianee, eseguendo i comandi di Pelia,
guidarono al vello d’oro Argo, la solida nave. »
(Apollonio Rodio, Le Argonautiche, I, 1-4 trad.: G. Paduano)

gli argonauti

Diversi cataloghi ci hanno riservato la lista degli Argonauti, accorsi alla notizia, proclamata da un araldo attraverso tutta la Grecia, che Giasone organizzava una spedizione verso la Colchide. Queste liste differiscono sensibilmente le une dalle altre, e riflettono le epoche diverse della leggenda. Due, soprattutto, sono interessanti, quella d’Apollonio Rodio e quella d’Apollodoro. Il numero degli Argonauti è relativamente stabile: da cinquanta a cinquantacinque. La nave era costruita per cinquanta rematori. Un certo numero di nomi è comune alle due liste, e rappresenta la base più sicura della leggenda. Sono, oltre a Giasone che comandava la spedizione, Argo, figlio di Frisso (o, secondo altri, d’Arestore), il costruttore della nave, Tifi (figlio d’Agnate) che la pilotava. Tifi aveva accettato queste funzioni per comando d’Atena, la quale gli aveva insegnato l’arte, ancora sconosciuta, della navigazione. Allorché morì, nel paese dei Marianidi, fu sostituito da Ergino, figlio di Poseidone. Poi, veniva Orfeo, il musico tracio, che aveva l’incarico di dare la cadenza ai rematori. Si affermava che gli dei gli avevano ordinato d’imbarcarsi sull’Argo perché i suoi canti servissero d’antidoto alle seduzioni delle Sirene. L’equipaggio contava parecchi indovini: Idmone, figlio d’Abante, Anfiarao, e, almeno nella lista data da Apollonio, il lapita Mopso. Poi venivano i due figli di Borea, Zete e Calaide, i due figli di Zeus e di Leda, Castore e Polluce, e i loro due cugini, i figli di Afareo, Ida e Linceo. L’araldo della spedizione era Etalide, un figlio di Ermes. Il suo nome è omesso da Apollodoro. Tutti questi eroi svolgono una parte attiva nelle avventure dell’Argo. Quelli che seguono sono generalmente semplici comparse. Sono: Admeto, figlio di Fere; Acasto, figlio di Pelia, che aveva accompagnato il cugino Giasone, contrariamente agli ordini del padre; Periclimeno, figlio di Neleo; Asterio (o Asterione), figlio di Comete; il lapita Polifemo, figlio di Elato; Ceneo oppure il figlio Corono; Eurito, figlio di Ermes, e (in Apollonio) suo fratello Echione; Augia, figlio di Elio, e re di Elide, fratello d’Acete, che partecipò alla spedizione, spinto, si dice, dal desiderio di vedere suo fratello, che non conosceva; Cefeo, figlio d’Aleo, e (in Apollonio soltanto), suo fratello Anfidamante; Palemone, figlio d’Efesto, o d’Etolo, Eufemo, figlio di Poseidone; Peleo e suo fratello Telamone, entrambi figlio di Eaco; Ifito, figlio di Naubolo; Peante, padre di Filottete. Questi è menzionato da Valerio Flacco e da Igino. Poi vengono Ificlo, figlio di Testio, e suo nipote Meleagro; Bute, figlio di Teleone e (in Apollonio soltanto) figlio d’un altro Teleone, Euribote. Apollodoro e Apollonio s’accordano nel nominare Eracle, il cui nome è legato a un episodio della navigazione, il rapimento d’Ila, ma a proposito del quale la trazione è lungi dall’essere unanime. Infine, entrambi comprendono nella loro lista Anceo, figlio di Licurgo.

I nomi seguenti non figurano nella lista d’Apollodoro: tre dei figli di Pero, Talao, Areio e Leodoco; Ificlo, figlio di Filaco; Euridamante, figlio di Crimeno; Falero, figlio d’Alcone; un Ateniese, Flia (o Flio), figlio di Dioniso (al posto di Flia, Apollodoro nomina altri due figli dello stesso dio, Fano e Stafilo); Naupilo, che Apollonio distingue, per ragioni di cronologia, dal padre di Palamide; Oileo, il padre del «Piccolo Aiace». Fra i parenti di Meleagro, dai nomi già citati, Apollonio aggiunge il figlio di Portaone, Laocoonte, che non figura in Apollodoro. Poi vengono Eurizione, figlio d’Iro; Clizio e Ifito, figli d’Eurito; Canto, figlio di Caneto; Asterio e Anfione, figli d’Iperasio.

Invece Apollodoro cita i seguenti eroi, che non sono nominati da Apollodoro: oltre a Fano e Stafilo, Attore, figlio d’Ippaso, Laerte e suo suocero Autolico, Eurialo, figlio di Mecisteo, che appartiene al ciclo troiano, come Peneleo, figlio d’Ippalmo, Leito, figlio d’Alettrione, poi Atalanta, la sola donna dell’equipaggio, Teseo, nella leggenda del quale questo è solo un episodio introdotto artificiosamente e in modo tardivo, Menezio, figlio d’Attore, egli stesso figlio di Deione, e distinto dal figlio d’Ippaso, e infine Ascalafo e Ialmeno, figli di Ares.

La fantasia dei vari scoliasti e quella dei poeti tardivi ha infine accumulato nella lista degli Argonauti nomi prestigiosi, che non sono stati acconti né da Apollonio né da Apollodoro: per esempio Tideo, il medico Asclepio, il musico Filammone, Nestore, il quale figura solamente nel poema di Valerio Flacco, Piritoo, l’inseparabile compagno di Teseo, e la cui presenza si spiega con l’introduzione di questi nella leggenda, come si spiega, con quella d’Eracle, la menzione d’Ilo, suo figlio (che contraddice le cronologie fissate abitualmente), di Iolao, d’Ifito, fratello d’Euristeo, e anche, nel solo Igino, del fratello gemello d’Eracle, Ificle. Valerio Flacco nomina un Climeno, zio di Meleagro, il quale è più generalmente considerato come un fratello dell’eroe. Igino, infine, nomina solo: Ippalcimo, figlio di Pelope e d’Ippodamia (ma che non figura nelle genealogie abituali), il cretese Deucalione, padre d’Idomeneo, e un eroe il cui nome, mutilato, sembra essere Tersanore, figlio di quella Leucotoe che fu trasformata in eliotropio.

la navigazione

La nave fu costruita a Pagase, che è un porto della Tessaglia, da Argo, con l’aiuto della dea Atena. Il legno proveniva dal Pelio, salvo il pezzo di prua, portato dalla dea: era un frammento della quercia sacra di Dodona. Ella stessa l’aveva intagliata, e dotata della parola, dimodoché poteva profetizzare.

L’Argo fu varata dagli eroi, in mezzo a grande affluenza di popolo, sulla spiaggia di Pagase, ed essi s’imbarcarono, dopo un sacrificio ad Apollo. I presagi erano favorevoli. Interpretati da Idmone, indicavano che tutti dovevano ritornare sai e salvi, fuorché lo stesso Idmone, destinato a perire durante il viaggio.

Il primo scalo fu l’isola di Lemno. In quell’epoca, c’erano soltanto donne sull’isola, poiché esse avevano messo a morte tutti gli uomini. Gli argonauti s’unirono a esse e diedero loro figli. Lasciandole, navigarono verso l’isola di Samotracia, dove, su consiglio d’Orfeo, si fecero iniziare ai misteri. Poi, penetrando nell’Ellesponto, arrivarono all’isola di Cizico, nel paese dei Dolioni, il cui re si chiamava Cizico. Questo popolo li accolse in maniera ospitale. Il re li invitò a un banchetto e dette loro molte prove d’amicizia. La notte seguente gli eroi partirono, ma, durante la notte venti contrari si alzarono, a loro insaputa, cosicché prima dell’alba approdarono di nuovo sulla riva dei Dolioni. Questi, non accorgendosi che erano i loro ospiti della vigilia che ritornavano, li scambiarono per pirati pelasgi che venivano, come facevano sovente, ad attaccare il paese. Si accese la battaglia. Richiamato dal rumore, il re Cizino accorse a dar man forte ai suoi sudditi. Ma ben presto fu ucciso dallo stesso Giasone, che gli trafisse il petto con la lancia. Gli altri eroi fecero un gran massacro dei loro nemici. Ma, allo spuntare del giorno, le due parti riconobbero il loro errore, e tutti fecero lamenti. Giasone tributò magnifici funerali al re Cizico. Per tre giorni, gli Argonauti emisero lamenti rituali, e dettero giochi in suo onore. Frattanto Clita, la giovane moglie di Cizico, s’impiccava per la disperazione. Le Ninfe piansero a tal punto che dalle loro lacrime si formò una fontana, poi chiamata Clita. Prima di partire, dato che una tempesta impediva loro di riprendere il mare, gli Argonauti eressero sul monto Dindimo, che domina Cizico, una statua di Cibele, madre degli dei.

La tappa seguente li portò più a est, sulla costa della Misia. Gli abitanti li accolsero con doni. Mentre gli eroi sono occupati a preparare il pranzo, Eracle, che aveva spezzato il suo remo durante la traversata per la foga con cui remava, partì per la vicina foresta in cerca d’un albero per fabbricarne un altro. Ma Ila, un giovane ch’egli amava  e che si era imbarcato con lui sull’Argo, era stato mandato in cerca d’acqua dolce per preparare il pranzo. Sul margine di una fontana incontrò le Ninfe le quali danzavano. Meravigliate per la sua bellezza, le Ninfe lo attirarono fino alla fontana, dove annegò. Polifemo, uno degli Argonauti, udì il grido del ragazzo nell’istante in cui spariva sott’acqua. Si precipitò in suo aiuto, e, per la strada incontrò Eracle il quale tornava dalla foresta. Entrambi si misero a cercare Ila. Passarono tutta la notte a errare nel bosco, e, allorché la nave partì, prima dell’alba, essi non erano a bordo. Gli Argonauti dovettero dunque continuare il viaggio senza Eracle e Polifemo, poiché non era nell’ordine dei Destini che i due eroi partecipassero alla conquista del Vello. Polifemo fondò, nei paraggi, la città di Cio, ed Eracle continuò le sue imprese da solo.

Argo giuse in seguito al paese dei Bebrici, dove regnava il re Amico. Dopo la sconfitta d’Amico causata da Polluce, secondo certe tradizioni, una battaglia generale si scatenò fra gli Argonauti e i Bebrici. Questi persero molti uomini e finirono col fuggire in ogni direzione.

L’indomani gli Argonauti ripartirono e, sorpresi dalla tempesta, prima di avventurarsi nel Bosforo, dovettero fare scalo sulla costa della Tracia, cioè sulla riva europea dell’Ellesponto. Qui, si trovarono nel paese di Fineo. Fineo era un indovino cieco, figlio di Poseidone, che gli dei avevano colpito con una maledizione singolare: ogni volta che si metteva davanti a lui una tavola imbandita di vivande, le Arpie, che sono esseri per metà uccelli e per metà uomini, si precipitavano sulle vivande, ne prendevano una parte e insudiciavano coi loro escrementi ciò che non potevano portare via. Gli Argonauti chiesero a Fineo di informarli sull’esito del viaggio che intraprendevano. Ma l’indovino non volle dar loro risposta finché non lo avessero liberato dalle Arpie. Gli Argonauti gli dissero di sedersi alla loro tavola, e quando le Arpie si precipitarono, Calaide e Zete, che erano alati, come figli d’un dio del vento, si precipitarono al loro inseguimento, fino a che le Arpie, esauste, promisero giurando sullo Stige di non importunare il re Fineo. Liberato da questa maledizione, Fineo rivelò agli Argonauti una parte dell’avvenire, ciò che a loro era permesso conoscere. Li mise in guardia contro un pericolo che incombeva imminente sulla loro strada: le Cianee («le Rocce Blu»), scogli mobili che si urtavano l’un l’altro. Per sapere se potranno passare in mezzo a queste rocce, Fineo consiglia loro di farsi precedere da un piccione. Se esso riesce a superare il passaggio, anche loro potranno seguirlo senza pericolo. Ma se gli scogli si richiuderanno su di lui, allora significa che il volere degli dei sarà loro contrario, e sarà cosa saggia rinunciare all’impresa. Poi dà loro alcune indicazioni sulle tappe principali della loro strada.

Dopo quest’oracolo, gli Argonauti continuano la loro strada. Arrivati davanti alle Rocce Blu, chiamate anche Simpleadi (cioè «le Rocce che si urtano»), lasciarono andare una colomba, la quale riuscì a superare il passaggio, ma le rocce, richiudendosi, spuntarono le piume più lunghe della coda. Gli eroi aspettarono che le rocce si fossero di nuovo allontanate, e si lanciarono a loro volta. La nave uscì sana e salva, ma la poppa fu leggermente danneggiata, come lo era stata la coda della colomba. Da quell’epoca, le Rocce Blu restarono immobili, poiché il destino voleva che appena una nave fosse riuscita a superarle, il loro movimento avesse fine.

Penetrati così gli Argonauti nel Ponto Eusino – Il Mar Nero -, giunsero al paese di Marianidi, il cui re, Lico, li accolse favorevolmente. Qui, durante una caccia morì l’indovino Idmone, ferito da un cinghiale. Sempre lì morì il pilota Tifi. Anceo [Ergino o altri] lo sostituì al timone. Gli argonauti oltrepassarono poi la foce del Termodonte (il fiume sulle rive del quale si dice talvolta vivessero le Amazzoni), poi costeggiarono il Caucaso e giunsero in Colchide, alla foce del Fasi, che era la meta del loro viaggio.

Gli eroi sbarcarono, e Giasone si recò presso il re, Eete, al quale espose la missione affidatagli da Pelia. Il re non rifiutò di dargli il Vello d’oro, ma pose come condizione che egli avrebbe messo il giogo, senza essere aiutato, a due tori dagli zoccoli di bronzo, che soffiavano fuoco dalle narici. Questi tori mostruosi, doni di Efesto a Eete, non avevano mai conosciuto il giogo. Una volta superata questa prima prova, Giasone avrebbe dovuto ancora arare un campo, e seminare i denti d’un drago (era il resto dei denti del drago di Ares, a Tebe, che Atena aveva dato a Eete).

Giasone si chiedeva come avrebbe potuto imporre il giogo a quei mostri, quando Medea, la figlia del Re, la quale aveva concepito una viva passione per lui, venne in suo aiuto. Cominciò col fargli promettere di prenderla come moglie se ella avesse permesso di superare le prove imposte dal padre, e di portarla in Grecia. Giasone promise. Medea gli dette allora un balsamo magico (poiché elle era esperta in tutte le arti occulte), con quale egli avrebbe dovuto spalmare lo scudo e il corpo prima di lottare col toro d’Efesto. Questo balsamo aveva il potere di rendere invulnerabile al ferro e al fuoco chiunque ne fosse spalmato; e la sua invulnerabilità doveva durare un’intera giornata. Inoltre, ella gli rivelò che i denti del drago avrebbero fatto nascere una messe di uomini armati i quali avrebbero tentato d’uccidere l’eroe. Egli avrebbe dovuto lanciare da lontano una pietra in mezzo a loro. Allora gli uomini si sarebbero scagliati l’uno contro l’altro accusandosi reciprocamente d’aver lanciato questa pietra, e sarebbero morti sotto i propri colpi. Premunito in tal maniera, Giasone riuscì a mettere i tori sotto il giogo e ad attaccarli all’aratro, poi ad arare il campo, e infine seminò i denti del drago. Poi, si nascose, e, da lontano, lapidò gli uomini che nacquero da queste strane semine. Gli uomini si misero a combattere fra di loro. Approfittando della loro disattenzione, Giasone li massacrò.

Eete, però, non mantenne la promessa. Cercò di bruciare la nave Argo e di uccidere l’equipaggio. Ma, prima che avesse avuto il tempo di attuare il suo piano, Giasone, guidato da Medea, si era già impadronito del Vello (i sortilegi di Medea avevano addormentato il drago preposto alla sua custodia), ed era fuggito.

Allorché Eete scoprì che Giasone era fuggito portando con sé il Vello e sua figlia, si precipitò all’inseguimento della nave. Medea, la quale aveva previsto ciò, uccise suo fratello Apsirto, che aveva portato con sé, e ne disperse le membra strada facendo. Eete perse del tempo a raccoglierle, e, quando ebbe finito, era troppo tardi per pensare a raggiungere i fuggitivi. Così, prendendo con sé le membra del figlio, raggiunse il porto più vicino, che Tomi, sulla costa occidentale del Ponto Eusino, e qui seppellì il figlio. Ma, prima di tornare in Colchide, lanciò molti gruppi di suoi sudditi all’inseguimento di Argo, ammonendoli che, se non avessero riportato Medea, sarebbero stati fatti morire al suo posto.

Secondo un’altra versione, Apsirto era stato mandato da Eete all’inseguimento della sorella, ma Giasone l’avrebbe ucciso, con tradimento, aiutato da Medea, in un tempio consacrato ad Artemide, alla foce del Danubio (Istro). Comunque siano andate le cose, gli Argonauti continuarono la loro strada verso il Danubio, e risalirono il fiume fino all’Adriatico (all’epoca in cui fu elaborata questa versione della leggenda, il Danubio, o Istro, era considerato un’arteria fluviale che metteva in comunicazione il Ponto Eusino con l’Adriatico). Zeus, irritato dall’uccisione d’Apsirto, inviò una tempesta che allontanò la nave dalla rotta. Allora la nave si mise a parlare, e rivelò la collera di Zeus. Aggiunse che questa collera non sarebbe cessata se prima gli Argonauti non fossero stati purificati da Circe. Allora, la nave risalì l’Eridano (il Po), e il Rodano, attraverso il paese dei Liguri e quello dei Celti. Di qui, essi raggiunsero ancora il Mediterraneo, girarono attorno alla Sardegna e toccarono l’isola d’Eea, il regno di Circe (senza dubbio, la penisola del monte Circeo, a nord di Gaeta, tra il Lazio e la Campania). Qui, la maga, che era, come Eete, figlia del Sole, e perciò si trovava ad essere la zia di Medea, purificò l’eroe ed ebbe un lungo colloquio con la giovane, ma rifiutò nel modo più assoluto ospitalità a Giasone nel suo palazzo.

La nave riprese allora la corsa errabonda, e, guidata dalla stessa Teti, su ordine di Era, attraversò il Mare delle Sirene. Qui, Orfeo cantò una melodia così bella che gli eroi non ebbero alcuna voglia di soggiacere al richiamo delle Sirene. Soltanto uno di essi, Bute, raggiunse a nuoto gli scogli delle maghe, ma Afrodite lo salvò, portandolo via e depositandolo a Lilibeo (oggi Marsala), sulla costa occidentale della Sicilia.

Dipoi, la nave Argo incontra lo stretto di Cariddi e Scilla, poi le isole erranti (senza dubbio le isole Lipari), al disopra delle quali s’innalzava un fumo nero. Infine, arrivarono a Corcira (offi Corfù), nel paese dei Feaci, di cui Alcinoo era il re. Qui incontrarono in gruppo di Colchidesi lanciati al loro inseguimento da Eete. I Colchidesi chiesero ad Alcinoo di consegnar loro Medea. Alcinoo, dopo aver consultato la moglie Arete, rispose che avrebbe acconsentito se Medea, ad una visita, fosse apparsa vergine. Ma, se ella fosse già stata moglie di Giasone, avrebbe dovuto rimanere con lui. Arete fece sapere di nascosto a Medea la decisione d’Alcinoo, e Giasone si affrettò a soddisfare la condizione che doveva salvare Medea. Ad Alcinoo non restò che rifiutarsi di consegnare la giovane. I Colchidesi, non osando rientrare in patria, si stabilirono presso i Feaci. E gli Argonauti ripresero il mare.

Avevano appena lasciato Corcira che una tempesta li trasportò verso le Sirti, sulla costa libica. Qui, dovettero portare la nave in spalla fino al lago Tritonio. Grazie a Tritone, il dio del lago, trovarono uno sbocco verso il mare e riprendono il viaggio in direzione di Creta. Ma, durante questa vicenda, hanno perduto due compagni, Canto e Mopso (i quali d’altronde non figurano in tutte le liste degli Argonauti trasmesse dalla tradizione).

A Creta, vengono in urto, al momento dello sbarco, con un gigante, Talo, specie di mostruoso robot, costruito da Efesto, e al quale Minosse aveva affidato il compito di difendere l’isola da qualunque sbarco. Egli staccava rocce enormi dalla riva e le lanciava di lontano contro le navi che passavano, per allontanarle. Tre volte al giorno, faceva il giro dell’isola. Questo gigante era invulnerabile, ma aveva, alla caviglia, sotto una pelle molto spessa, una vena, sede della vita. Se la vena fosse stata aperta, Talo sarebbe morto. Medea ebbe ragione di questo gigante per mezzo dei suoi incantesimi. Lo rese furioso, inviandogli visioni ingannatrici, e agì così bene che Talo si lacerò la vena della caviglia contro una roccia. Egli morì all’istante. Gli Argonauti approdarono, e passarono la notte sulla riva. L’indomani, innalzarono un santuario ad Atena Minoica e ripartirono.

Sul mare di Creta, furono d’un tratto sorpresi da una notte opaca, misteriosa, che fece correre loro i più gravi pericoli. Giasone implorò Febo, chiedendogli di mostrar loro la rotta in mezzo a quella oscurità. Allora, Febo-Apollo esaudì la sua preghiera, e lanciò un dardo infuocato che rivelò loro, vicinissima alla nave, un’isoletta delle Sporadi, dove poterono gettare l’ancora. Dettero a quest’isola il nome d’Anafe (l’«Isola della Rivelazione»), e vi eressero un santuario a Febo il Radioso. Ma le offerte per celebrare degnamente il sacrificio inaugurale mancavano su questo isolotto roccioso. Così, fecero le libagioni rituali con vino al posto di acqua. Vedendo ciò, le serve feaci, date da Arete a Medea come regalo di nozze, si misero a ridere indirizzando frizzi salaci agli Argonauti. Questi risposero per le rime, e ne seguì una scena gioiosa, che è ripetuta ogni volta ce, se questo isolotto, si celebra un sacrificio in onore d’Apollo.

Poi, gli Argonauti fecero scalo a Egina, e, costeggiando l’Eubea, giunsero a Iolco, avendo compiuto il loro periplo in quattro mesi e portando il Vello d’oro. Giasone condusse poi la nave Argo a Corinto, dove la consacrò a Poseidone, come ex-voto.

Questa leggenda, molto complessa, è anteriore, nel suo primo nucleo, alla redazione dell’Odissea che conosce le imprese di Giasone. Poi noi, è soprattutto celebre a causa del lungo dotto poema di Apollonio Rodio, che la racconta nei minimi particolari. Nell’Antichità, conobbe una grande popolarità; finì col costruire un ciclo al quale si ricollegano, bene o male, un gran numero di leggende locali. Come dai poemi omerici, si ricavarono delle avventure d’Argo opere teatrali, poemi di ogni specie. Il romanzo di Medea, in particolare, sedusse i poeti.

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