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Didone: barbara e maga?

Didone è forse il più noto e amato dei personaggi virgiliani: in lei la tipologia della donna abbandonata dall’uomo che ama, e quindi disperata e suicida, assume una completezza e verità psicologica da farne una figura emblematica, e in un certo senso, universale. Tuttavia, l’interesse del personaggio non risiede solo nella sua verità umana, ma anche nella sua funzione narrativa e ideologica. Come molte eroine del mito greco – Arianna, Fedra, Medea – anche Didone è raffigurata come figura nobile e di alto profilo, ma incapace di controllare le passioni, e quindi estranea, “altra”, diversa, rispetto alle ragioni del mondo evoluto e civilizzato. Arianna, Fedra e Medea pagano il loro essere “straniere” – “barbare” dal punto di vista della civiltà greca – e vengono raffigurate in preda a reazioni passionali e emotive che le società civilizzate segregano e rifiutano. Arianna e Medea appartengono a terre arcaiche e favolose: la Creta del Minotauro l’una, la remota Colchide l’altra; sono esperte di arti magiche; per amore hanno aiutato un nemico del loro popolo, hanno tradito la propria famiglia e abbandonato il loro paese. Alla passione si intreccia la colpa, destinata a produrre conseguenze funeste. Anche Didone è straniera ed ha una barbarica inclinazione a concepire forti passioni fuori misura; anche lei ha commesso una “colpa”, nel momento in cui non è restata fedele alla memoria del marito, come aveva giurato, e anche nell’avere accolto come sposo Enea, straniero rispetto al suo popolo: l’abbandono provocherà in lei furor e dementia, cioè quell’annullamento delle facoltà razionali che provoca gesti estremi e fatali. Il carattere “barbarico” di Didone è accentuato anche dagli accenni che Virgilio fa al suo essere esperta di arti magiche. Ricordiamo infatti che per meglio ingannare la sorella e nasconderle i preparativi del suicidio, Didone le fa credere di voler compiere un rito magico, al fine di riuscire a dimenticare Enea o richiamarlo a sé: le ricorda che in passato le fu presentata una maga proveniente dal remoto paese delle Esperidi, una sacerdos che dava cibo a un dragone e manteneva sempre verdi i rami sacri di un albero, cospargendoli di miele e di papavero. La maga sa come condurre l’oblio con incanti (carminibus), come suscitare affanni, come fermare le acque dei fiumi, mandare all’indietro il corso degli astri ed evocare le ombre dei morti. Dicendo di volere ricorrere, sia pure a malincuore, alle arti magiche, Didone invita la sorella a preparare un rogo, a mettervi sopra le armi di Enea, la sua effigie, e tutto ciò che resta di lui, compreso il letto dove insieme erano giaciuti: infatti la maga prescrive di bruciare tutti i ricordi. Anna prepara quanto le è stato chiesto e la sacerdos, cioè la maga che affianca Didone, con i capelli sciolti, invoca a gran voce i nomi di trecento dèi, e l’Èrebo e il Caos e la triforme Ecate e i tre volti della vergine Diana. Poi versa dell’acqua, fingendo fosse quella dell’Averno e prepara erbe colte con falci di bronzo al chiarore della luna e succo di fosco veleno; prepara anche un filtro amoroso. Didone, accanto a lei, sparge la tradizionale mistura di farro misto a sale. Presso gli altari, con le mani lavate, con un piede scalzo e con la veste sciolta dal cinto, chiama a testimoni gli dei e e stelle conscie del Fato (vd. IV vv. 509-521).

Il rito magico inserisce nel racconto un’aura cupa, che, intrecciandosi con la descrizione del lungo delirio della regina, ne accentua la caratterizzazione come donna barbara ed estranea alla razionalità di cui Enea, invece, prototipo del civis Romanus, è portatore. Si ricordi che l’intero episodio aveva il fine di dimostrare le cause remote dell’inimicizia storica fra Cartaginesi e Romani, ed era perciò fondamentale anche mostrare la diversità culturale e antropologica esistente tra le due civiltà, e quindi le ragioni che hanno determinato la superiorità dell’una sull’altra.

Già nell’Ecloga VIII Virgilio aveva liberamente tradotto l’Idillio II di Teocrito, nel quale viene descritto un rito magico compiuto da una donna per ottenere il ritorno dell’amante. Questo tipo di magia era praticato in Italia, come in Grecia e in Egitto, ed era diffuso presso tutte le classi sociali, anche se malvisto dalle autorità dello Stato. La cerimonia magica che egli descrive nel libro IV dell’Eneide è molto più complessa, e contribuisce a mettere meglio in luce il carattere di Didone, dandole alcuni tratti di somiglianza anche con Cleopatra, personaggio storico, ma assurto a simbolo della molle e corrotta civiltà orientale alla quale Augusto voleva contrapporre i valori tradizionali italici. Con il rito magico non può far tornare Enea, ma il suo suicidio, che ne è il complemento, rafforza, secondo un’opinione comune, il potere distruttivo della sua maledizione, proiettandola nel futuro.

Concludiamo l’articolo con una citazione di G.Luck:

«Didone non è per niente simile ad una strega; somiglia piuttosto ad una regina orientale di un racconto di fate, dal passato tragico […] Viene in mente l’episodio di Circe nell’Odissea e l’incontro tra Giasone e Medea nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. […] Assomiglia anche però a Cleopatra, la regina egiziana, che ai tempi di Virgilio ebbe rapporti con due grandi uomini romani: Giulio Cesare e Marco Antonio. L’immagine di Cleopatra fu distorta dalla contemporanea propaganda romana, al punto che l’influenza da lei esercitata su Cesare e Antonio venne addirittura spiegata in termini di arte magica, un’arte che Cleopatra poteva facilmente aver appreso nel suo paese d’origine. Per il personaggio di Didone Virgilio attinse, dunque, alcuni motivi dalle eroine del mito, Circe e Medea; altri motivi li derivò, invece, da un personaggio storico, Cleopatra.»

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