Il problema delle alterazioni ambientali, a causa di un eccessivo o irrazionale sfruttamento delle risorse terrestri, era vivamente già sentito in età greco-romana, sebbene il mondo antico, a causa della scarsa quantità di popolazione, non fosse in grado di produrre consistenti quantità di residui non biodegradabili come quelli connessi all’estrazione e agli scarti della produzione industriale. Eppure erano molti gli scrittori che si preoccupavano del degrado della natura, causato dall’intensa attività estrattiva che comportava interventi invasivi di scavo, deviazione di fiumi, inquinamento dell’aria e dell’acqua, e portava al progressivo esaurimento di alcune risorse.
Lo storico Erodoto (V secolo a.C.) scriveva che le miniere di Taso – isola antistante la Tracia – «come una grande montagna, tutta buttata all’aria nella ricerca di metalli preziosi.» Ai danni provocati dall’attività estrattiva gli antichi scrittori greci aggiungevano anche quelli della metallurgia e della ceramica, industrie che richiedevano entrambe ampio consumo di legname come combustibile e provocavano inquinamento delle acque.
Il filosofo greco Platone (anch’egli di V secolo a.C.) sintetizzava le preoccupazioni per l’esaurimento delle risorse con queste espressioni molto incisive:
«Ciò che ora rimane, paragonato a cosa esisteva, è come lo scheletro di un uomo morto di stenti. Tutta la terra grassa e morbida è stata spazzata via, lasciando lo scheletro nudo di un paesaggio desolato. Ma a quell’epoca il paese era intatto e tra le sue montagne aveva alte colline coltivabili… e molte foreste i cui residui sono visibili anche ai giorni nostri. Ora vi sono montagne che non hanno nemmeno il cibo per nutrire le api, ma che molto tempo fa erano ricche di alberi, e le travi ottenute abbattendoli per fare i tetti dei grandi palazzi sono ancora intatte… Inoltre tutto era arricchito dalle piogge annuali di Zeus, che non andavano perdute come ora scorrendo dalla nuda terra fino al mare; ma il terreno era profondo e all’interno riceveva le acque conservandole in un suolo grasso e accogliente… Così ogni luogo era provvisto di sorgenti e corsi d’acqua.»
Non pochi scrittori, inoltre, attribuivano grande responsabilità nei processi di alterazione ambientale anche alle guerre, le quali producevano devastazioni e incendi, inquinavano le aree agricole e le acque attraverso lo spargimento di sangue e la presenza di cadaveri e incentivavano il prelievo delle risorse naturali (come ad esempio per la costruzione di macchine d’assedio). Il problema, in effetti, era reale, tanto che nel diritto di guerra esisteva il divieto di inquinare deliberatamente le acque.
Nel mondo greco, tuttavia, uno dei maggiori scrittori che impostarono il problema ecologico da un punto di vista teorico fu Teofrasto, filosofo e botanico (371-287 a.C.) che può considerarsi il padre dell’ecologia moderna. Egli, infatti, considerava la Terra come un organismo vivente dotato di una propria dignità e sensibilità: quasi un’anima.
Nel mondo romano fu soprattutto Plinio (I secolo d.C.) ad avvertire i problemi delle alterazioni ambientali. Egli, per esempio, collegava i terremoti alle attività estrattive e scriveva:
«Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime della terra, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi e si metta a tremare. L’uomo ha imparato a sfidare la natura. (Storia naturale XXXIII,1,1.)»
La crisi politico-militare cui andò incontro l’Impero romano a partire dal III secolo d.C. accentuò le alterazioni ambientali lamentate dagli scrittori precedenti. Infatti, venuto meno il controllo del territorio da parte delle autorità centrali e contrattesi le entrate dello Stato per la perdita di alcune province e/o per la cupidigia di amministratori disonesti, che si appropriavano indebitamente delle entrate fiscali, venne meno anche la manutenzione di tante opere pubbliche. Le strade, non più battute dai mercanti, decaddero; molti fiumi dapprima ben curati e presidiati, perché erano utilizzati come vie di navigazione interna o segnavano i confini imperiali, furono abbandonati a se stessi e, rompendo gli argini sotto l’impeto delle piene, impaludarono estese pianure; schiere di contadini dissanguati dalle guerre e dalle tasse abbandonarono la terra, per cui i campi inselvatichirono; parecchi porti, che erano terminali di floride vie commerciali, furono disertati e s’interrarono. Molte infrastrutture e strutture insediative, insomma, nell’arco di qualche secolo andarono incontro a degradazione e scomparvero sotto coltri di detriti.
Vediamo ora, con qualche esempio, cosa accadde nel mondo romano in tema di alluvioni e diboscamento.
Alluvioni. A Roma il curator alvei et riparum Tiberis (= curatore dell’alveo e delle rive del Tevere) fu istituito da Augusto, il quale era molto sensibile al problema dell’assetto non solo del territorio della capitale, ma anche di quello delle province. A Roma, infatti, fece ripulire, secondo quanto racconta Svetonio, «il letto del Tevere che da tempo era ostruito dai detriti e ristretto per l’estendersi degli edifici», mentre in Egitto «fece ripulire dai suoi soldati tutti i canali in cui si riversava il Nilo, che erano ostruiti dal fango depositato da tempo.» Per regolare il regime fortemente torrentizio di alcuni fiumi dell’Italia centrale, propose anche di deviare nell’Arno il corso del fiume Clanis (Chiana), ritenuto il responsabile principale delle piene con cui il Tevere, di cui era tributario, periodicamente invadeva Roma. La sua proposta, però, fu bocciata dai cittadini di Firenze, i quali temevano che il Clanis avrebbe aumentato la portata dell’Arno così notevolmente da far ricadere sulla loro città le conseguenze dei danni evitati a Roma. Progettò, inoltre, di attenuare le piene del sistema fluviale Nera-Velino mediante il frazionamento dei due corsi d’acqua in canali multipli e mediante l’allagamento della piana di Reate, da trasformare in una gigantesca cassa d’espansione. Anche questo suo progetto, però, non fu approvato.
Diboscamento. Prima della Seconda Guerra Punica il territorio italiano, come pure gran parte di quello compreso nell’Impero romano, era coperto da estese foreste. Poi, a mano a mano che Roma espandeva il suo dominio, il bosco si contraeva per due motivi fondamentali: da un lato intere regioni erano confiscate e annesse all’ager publicus ed erano assegnate ai veterani per dissodarle e colonizzarle; dall’altro lato le necessità belliche e la rapida espansione dell’economia richiedevano enormi quantità di legno sia per la costruzione delle navi militari e commerciali e sia per alimentare fornaci delle industrie (ceramica, mattoni, vetro, armi, eccetera). Dalle conifere, in particolare, si ricavava anche la pece usata per calatafare le navi, impermeabilizzare i contenitori, dipingere le pareti e i soffitti, confezionare i cosmetici e medicine. L’estrazione della pece, tanto richiesta, era assegnata in appalto dallo Stato a società di pubblicani (societates picariae) e rivestiva grande importanza nella Sila (in Calabria).
Vaste foreste, perciò, furono sacrificate per la costruzione di navi. Una flotta di 100 triremi, per esempio, richiedeva 17.000 remi, costruiti con alberi giovani d’alto fusto (abeti, cipressi, pini marittimi), oltre al legname per scafi e alberature. Già nel mondo greco Platone scriveva che l’Attica, ricca di imponenti montagne un tempo ricoperte da foreste, era divenuta per lo più brulla e arida, quasi del tutto priva di alberi d’alto fusto. Gli storici antichi, in effetti, attribuiscono alla crisi di legname, dovuto al taglio indiscriminato di alberi, il lento e inesorabile declino della potenza militare e navale della Grecia peninsulare a favore dell’Epiro e del regno del Macedonia, terre più piovose e più boscose: in grado, quindi, di costruire non solo navi, ma anche armi e strumenti di lavoro a costi bassi (aratri, lance, scudi ecc.).
Nel mondo antico il processo di disboscamento si accentuò soprattutto quando, tra il II e il I secolo a.C., a Roma come in altre parti d’Italia iniziò una spiccata tendenza all’urbanesimo che comportò una massiccia richiesta di legname da costruzione e da ardere per le necessità degli ambienti domestici e degli edifici pubblici, soprattutto delle terme, e per la produzione della calce. Il disboscamento più intenso si verificò, ovviamente, soprattutto lungo le coste e nelle aree interne attraversate dai fiumi navigabili che facilitavano il trasporto del legno, come erano allora in Italia il Tevere, l’Arno, il Po e tanti altri corsi d’acqua molto più abbondanti d’oggi. Il processo di intensa deforestazione interessò in maniera particolare tutto l’Occidente mediterraneo e dopo un arresto avvenuto nel Medioevo, quando anzi di verificò un incremento della vegetazione spontanea a causa del crollo demografico, riprese vigore con l’affermarsi delle Repubbliche Marinare.