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Accadde Oggi: 24 Agosto

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Dea Cerere

1/5) Festività del Mundus Cereris. Il mundus di Cerere è parte di una delle tradizioni più oscure e antiche della religione romana arcaica ma l’origine del rituale ad essa collegata è molto probabilmente di matrice etrusca. Si tratta di una fossa posta nel santuario di Cerere e consacrata agli dei Mani, che ha forma circolare a ricordare la volta celeste e l’universo tutto. Tale pozzo aveva anche la forma simbolica di un utero rovesciato che veniva scavato al centro della città al congiungimento degli assi di decumano e cardo. La fossa rimane chiusa per tutto l’anno ad eccezione di tre giorni in cui mundus patet.

Il rito prevedeva infatti che il 24 agosto, il 5 ottobre e l’8 novembre il mundus fosse aperto e pertanto quei giorni erano segnati nel calendario con la dicitura mundus patet, il mundus è aperto. L’apertura del mundus metteva in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti, i segreti dei Mani si trovano “alla luce” e per questo era proibita ogni attività ufficiale. Il rito aveva un carattere eminentemente purificatorio, e quindi propedeutico rispetto a eventi sacri che il calendario romano prevedeva nei giorni e soprattutto nel mese immediatamente successivo (Saturnali e Natale del Sole Invitto). Lo stesso termine di Mundus designa il “mondare” e il “purificare”, così come le consonanti ‘m-n-d’ sono le stesse della radice indoeuropea che richiama alla parola “bocca”, “utero”. In quanto rito purificatorio, al pari del battesimo e di altre cerimonie consimili, il rito di apertura del mundus aveva un carattere iniziatico, in quanto la purificazione è l’operazione sacra che immediatamente e necessariamente precede l’inizio di una nuova vita, individuale (iniziazione propriamente detta) o collettiva (rito religioso), inoltre si tratta di un rito dal carattere ctonio con valenze anche agricole (il 24 agosto era la vigilia degli Opiconsiva, festa che consacrava la messa al riparo del raccolto), cosa che richiama fortemente le valenze originarie di Cerere che la vedevano non solo come divinità che fa crescere le messi ma anche come guardiana della fecondità umana, dei fenomeni tellurici e del mondo sotterraneo dei morti. Non a caso il mundus mette in comunicazione l’esterno della Terra con il mondo sotterraneo e Dei Inferii che le abitano. Il rituale del “mundus patet” (il mundus è aperto), che si compiva per tre volte ogni anno, era il momento in cui le anime dei defunti potevano ritornare nel mondo dei vivi e aggirarsi a loro piacimento per la città. Spesso è stata messa in risalto l’analogia del rituale con quella della festa di Halloween, ma anche con la fossa scavata da Ulisse all’ingresso dell’Ade, nel XI libro dell’Odissea.

[Fonte: Jacquelin Champeaux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, 2002]

2/5) 49 a.C.: Battaglia del fiume Bagradas – Nel corso della guerra civile tra Pompeo Magno e Giulio Cesare, quest’ultimo invia in Africa il suo generale Gaio Scribonio Curione con due legioni per sconfiggere i pompeiani. A causa dell’enorme caldo e dalle informazioni ricevute da falsi disertori pompeiani, le legioni di Curione vengono pesantemente sconfitte dalle truppe generale pompeiano Publio Attio Varo e dalla cavalleria numida di Giuba I. Lo stesso Curione muore sul campo di battaglia, mentre Giuba cattura e tiene come ostaggi i senatori cesariani, e viene riconosciuto da Pompeo come re di Numidia, da Cesare come “nemico pubblico”.


 

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3/5) 79 d.C.: Eruzione del Vesuvio; morte di Plinio il Vecchio.

“Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata ad una gloria immortale.

Era a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l’una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell’ordinario sia per grandezza che per aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare quel prodigio.

Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna (si seppe poi in seguito che era il Vesuvio): nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la figura e la forma. Infatti slanciatasi in su come se si sorreggesse su di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami; credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l’esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi: talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sé terra o cenere.

Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburna e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto.

Mentre usciva di casa, gli viene consegnata una lettera da parte dì Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l’unica via di scampo era rappresentata dalle navi), lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso.

Egli allora cambia progetto e ciò che aveva incominciato per un interesse scientifico lo affronta per l’impulso della sua eroica coscienza.

Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poiché quel litorale, in grazia della sua bellezza era fittamente abitato. Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta ed il timone proprio nel cuore del pericolo, così immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo.

Ormai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso ed una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale. Dopo una breve esitazione se dovesse ripiegare all’indietro, al pilota che gli suggeriva quest’alternativa tosto replicò: «La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano”.

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Questi si trovava a Stabia, dalla parte opposta del golfo (giacché il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio); colà quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi, era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato su delle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, così che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com’era, lo conforta, gli fa animo e, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno: terminata la pulizia, prende posto a tavola e consuma la sua cena con un fare gioviale o, cosa che presuppone una grandezza non inferiore, recitando la parte dell’uomo gioviale.

Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell’affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi si prese un po’ di riposo e riposò di un sonno certamente genuino. Infatti il suo respiro, che, a causa della sua corpulenza, era piuttosto profondo e rumoroso, veniva percepito da coloro che andavano avanti e indietro dinanzi alla sua soglia.

Senonché il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di cenere mista a pomici, aveva ormai innalzato tanto il suo livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne.

Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l’azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l’impressione di sbandare ora da una parte ora dell’altra e poi di ritornare in sesto. D’altronde all’aperto cielo c’era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra i due pericoli indusse a scegliere quest’ultimo. In mio zio una ragione predominò sull’altra, nei suoi compagni una paura s’impose sull’altra. Si pongono in testa dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall’alto.

Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso per terra, chiese a due riprese dell’acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano.

Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò: da quanto io posso arguire, l’atmosfera troppo pregna di ceneri gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata.

Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu trovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui il suo corpo si presentava faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto.

Frattanto a Miseno io e mia madre… ma di questo non ti interessa la storia e tu non hai espresso il desiderio dl essere informato di altro che della sua morte. Dunque terminerò.

Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte cose alle quali ho partecipato o che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione.” [Lettera di Plinio il Giovane a Tacito]


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Sacco di Roma ad opera dei Visigoti in un quadro di JN Sylvestre del 1890

4/5) 410 d.C.: Primo Sacco di Roma – Dopo due assedi infruttuosi i Visigoti guidati da Alarico espugnano e saccheggiano Roma, che dopo 800 anni (dal 390 a.C., anno del Sacco dei Galli di Brenno) viene occupata da un esercito nemico. Vengono risparmiati su ordine dello stesso Alarico i luoghi di culto; una piccola parte della città viene data alle fiamme. Alarico cattura la sorella dell’imperatore d’Occidente Onorio (Galla Placidia), che tratterrà come ostaggio.

L’episodio ha grandi conseguenze sia nel dibattito cristiani-pagani, sia nell’ottica dell’eredità politica che ne deriva. Nel primo caso i pagani (Olimpiodoro, Zosimo) diedero la colpa ai cristiani perché avevano abbandonato il culto degli antenati, a loro volta i cristiani (S. Agostino, Paolo Orosio) considerarono l’episodio come punizione divina per i peccati dei Romani. A Costantinopoli vengono proclamati tre giorni di lutto cittadino.

Ci arriva dall’Occidente una notizia orribile. Roma è invasa.[…] È stata conquistata tutta questa città che ha conquistato l’Universo.[…] Chi avrebbe mai creduto che Roma, costruita sulle vittorie riportate su tutto il mondo, sarebbe crollata? Che tutte le coste dell’Oriente, dell’Egitto e d’Africa si sarebbero riempite di servi e di schiave della città un tempo dominatrice, che ogni giorno la santa Betlemme dovesse accogliere ridotte alla mendicità persone di entrambi i sessi un tempo nobili e pieni di ogni ricchezza? [Girolamo]

Poco attendibile, ma paradigmatico dell’impotenza dell’Impero, l’episodio narrato da Procopio secondo il quale Onorio l’Imperatore Onorio avrebbe ricevuto da un eunuco la notizia che Roma era perduta, e avrebbe replicato: “Ma se sta appena beccando dalle mie mani!” riferendosi alla sua gallina, che si chiamava Roma proprio come la città.

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The Favorites of the Emperor Honorius, John William Waterhouse, 1883

 

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Nomisma con Michele V (dx)

5/5) 1042 d.C.: muore l’imperatore bizantino Michele V Calafato a seguito delle ferite riportate dall’accecamento subito, in occasione del mancato “colpo” (con relegazione) contro la moglie e imperatrice Zoe Porfirogenita.

 


 

 

 

Antonio Palo

Laureato in 'Civiltà Antiche e Archeologia: Oriente e Occidente' e specializzato in 'Archeologie Classiche' presso l'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'. Fondatore e amministratore del sito 'Storia Romana e Bizantina'. Co-fondatore e presidente dell'Associazione di Produzione Cinematografica Indipendente 'ACT Production'. Fondatore e direttore artistico del Picentia Short Film Festival.

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